La memoria oltre il 27 di gennaio

Ne parliamo adesso per rispetto delle vittime e per schivare l’onda di melassa buonista provocata dal rito liberatorio delle coscienze che si celebra ogni 27 di gennaio. Quel giorno “siamo tutti ebrei” nel ricordo della Shoah e della ferocia umana. Ma soltanto quel giorno giacché, cessati i riti della commemorazione, non c’è più spazio per la memoria.

Oggi il mainstream del politicamente corretto attesta che le società europee non sono antisemite e che ciò che accadde nella Germania degli anni Trenta/Quaranta del Novecento fu un abominevole incidente della Storia, un deragliamento imprevisto della civiltà occidentale dai binari del suo divenire. Falso! Il nazismo fu il frutto non l’albero di una cultura antisemita radicata nella civiltà cristiana. Dall’Editto di Granada del 31 marzo 1492 con il quale i cattolicissimi reali di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando II di Aragona, decretavano l’espulsione dai territori del Regno di tutti gli ebrei che non accettavano la conversione obbligatoria al cattolicesimo, in nessun Paese europeo il popolo della Diaspora ha avuto vita facile. Non l’ebbero nella Germania di Martin Lutero che, nel 1543, scrisse il trattato intitolato “Degli Ebrei e delle loro menzogne”. E non l’ebbero nell’Inghilterra della “Golden Age” elisabettiana dove l’immortale William Shakespeare ci mise del suo. Cos’è il “Mercante di Venezia” se non la palma dell’antisemitismo letterario strappata all’altro capolavoro antisemita del suo tempo, “L’Ebreo di Malta” di Christopher Marlowe? E la Francia dell’“Affaire Dreyfus” fu forse meno antisemita delle altre nazioni? Questi riferimenti al passato portano a concludere che provare a circoscrivere il Male assoluto alla sola vicenda nazista sia un comodo quanto illusorio esercizio autoassolutorio.

L’antisemitismo non è sorto con il nazismo e non è morto con esso. La memoria resta fondamentale per costruire il futuro e coltivarla è un impegno nobile e sacro che ogni individuo dovrebbe avvertire come un imperativo della coscienza. Ma tutta la memoria, perché i ricordi selettivi possono essere pericolosi. Il 27 di gennaio si ricordano gli stermini nazisti eppure non sarebbe sbagliato se, a giusta distanza di tempo, si cominciasse ad allargare il campo d’osservazione passando dai crimini che riguardarono il regime hitleriano, di cui ormai si sa tutto o quasi, alle omissioni e alle sottovalutazioni di cui i suoi nemici si resero responsabili. La domanda che resta inevasa ancora oggi è: si poteva evitare che l’Olocausto si realizzasse? Gli storiografi riferiscono che le potenze alleate erano a conoscenza dell’esistenza dei campi di concentramento ben prima della fine della guerra. Le reti di spionaggio nelle nazioni occupate dalle truppe germaniche riferivano ai comandi alleati della deportazione in massa di cittadini di fede ebraica. Tuttavia nessuna missione aerea fu disposta, tra il 1944 e il 1945, per distruggere le vie di comunicazione con i campi di concentramento. In stazione ferroviaria a Milano si ricorda il “Binario 21”, dal quale partivano i treni piombati diretti ai lager di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Bergen-Belsen, Ravensbrück, Fossoli e Bolzano. Perché non fu mai tentata dai partigiani un’azione di sabotaggio per liberare i reclusi nei vagoni merci? Perché non furono fatte saltare le linee ferroviarie? Impedire che quei treni arrivassero a destinazione forse avrebbe salvato le vite di molte persone. Invece, per gli alleati impegnati a combattere la Germania gli ebrei non potevano essere una priorità. E giustificarsi dicendo: “Non credevamo che i nazisti fossero capaci di tanto orrore” non è la risposta appagante che può mandare assolte le coscienze di coloro che all’epoca sapevano ma non fecero nulla perché la tragedia fosse evitata. E anche il processo di Norimberga ai criminali nazisti non poteva e non doveva trasformarsi nel lavacro della coscienza dei vincitori che volevano emendarsi delle proprie colpe.

Non è giusto che di quei peccati non si parli. Come non è giusto che si faccia talvolta indebita e ipocrita ostensione dell’immagine della povera Anna Frank, simbolo della sofferenza inflitta dall’odio, ma non si dica una parola di suo padre Otto e delle sue disperate lettere scritte tra il 30 aprile 1941 e l'11 dicembre 1941 in cui chiedeva aiuto ai parenti ed amici americani per assicurare una via di fuga oltreoceano alla sua famiglia. Quegli appelli caddero nel vuoto. Come cadde nel vuoto la richiesta straziante dei 939 esuli ebrei che nell’estate 1939, in fuga dalla Germania, tentarono di sbarcare sul suolo statunitense dalla nave “St. Louis”. Gli scampati dall’orrore delle leggi razziali furono rispediti in Europa perché le politiche migratorie sotto la presidenza di Franklin Delano Roosevelt non consentivano di accoglierli.

Per compiere un’opera di piena ricostruzione della memoria una sola giornata commemorativa non basta. Oltre al 27 gennaio sarebbe saggio individuare un’altra giornata da dedicare alla lotta a tutti i negazionismi. A quelli dei mentecatti che si ostinano a dire che l’olocausto non sia mai avvenuto e che si sia trattato di una gigantesca montatura dei nemici del Reich. Ma anche al negazionismo delle altrui responsabilità negli avvenimenti che determinarono la Shoah. Si scoprirà che tra le élite al potere, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi tempo, l’attitudine alla verità non è mai contemplata.

Aggiornato il 30 gennaio 2018 alle ore 08:12