A chi la scelta dei candidati?

giovedì 1 febbraio 2018


Da qualche parte s’è levata una voce che gridava quasi allo scandalo, a proposito delle ultimissime scelte, o addirittura delle decisioni da parte dei leader e dei “partiti” sui candidati alle elezioni. Ed effettivamente qualche tono più alto del solito, qualche giravolta ad effetto, qualche greve stonatura s’è pur sentita, a meno che non si voglia, come sta succedendo da parte di certi media, criticare eticamente la cosiddetta intrusione partitica nelle scelte elettorali.

Denunciare moralmente, insomma, la pretesa dei dirigenti di partito e dunque dei leader di decidere questa o quella candidatura al Senato o alla Camera o in qualche Consiglio regionale. Mentre non si capisce bene chi dovrebbe assumere questo tipo di scelte che sono sempre e comunque politiche, ancor meno se ne comprendono gli alti lai da parte di certi opinion makers intrisi di accenti moralistici, posto che la Costituzione ma anche il buon senso stabiliscono per i candidati gli invalicabili confini per dir così giudiziari. A meno che...

A meno che non si faccia qualche pensierino sugli oltre 500 (cinquecento!) parlamentari che in questa legislatura hanno cambiato partito, svestendosi dei panni originali per indossarne di nuovi. Un tradimento degli elettori, soprattutto, e un impressionante cambio di casacca che resta comunque un record mondiale difficilmente raggiungibile da parte di qualsiasi sistema democratico parlamentare. E a meno che, in un quadro dove la stessa parola “partito” sembra in disuso da parecchio, anche il termine politica sia infine da scrivere (come facciamo) fra virgolette, ovverosia con sempre meno importanza, funzione, ragion d’essere.

Dopodiché la scelta di chi deve andare in lista non potrebbe che essere, per l’appunto, degli opinionisti se non addirittura dei media, i quali peraltro non sono sottoposti, al contrario dei partiti, al giudizio popolare, al voto degli elettori; voto e giudizio che, al dunque, costituiscono la garanzia più vera della democrazia.

Nelle critiche, non del tutto inutili (si capisce) spiccavano in particolare gli appunti severi e austeri di quegli opinionisti che rimproverano, un giorno sì e l’altro pure, ai capi o segretari di partito di badare troppo alla lealtà dei candidati, alla loro per dir così fedeltà alla bandiera partitica, di pretendere cioè di essere fedeli perinde ac cadaver invece che competenti, capaci, esperti, ecc..

Si dà il caso, peraltro, che spesso l’assenza di vere competenze sia anche in relazione a quel modo nuovo di intendere i partiti come sovrastrutture inutili e a volte dannose e svalutarne in tal modo l’essenza e la ragion d’essere e i non pochi meriti storici, col risultato, in sostanza, che la stessa classe politica, quella cioè chiamata e votata per reggere le sorti del Paese, si fa piccina piccina.

E mentre sullo sfondo si agitano sempre di più le bandiere predicatorie o, peggio ancora, le ventate dello scandalismo mediatico. Certo, il decadimento dei partiti e dei rispettivi rappresentanti, deriva dalla selezione della classe politica sottratta per così dire a quelle che oggi sprezzantemente si chiamano scuole di partito d’antan, quando, invece, erano e sono dei modi di essere più preparati e più esperti, grazie a sistemi di formazione sia interni che, soprattutto, esterni ai partiti. In realtà, la classe politica in una democrazia, deve cercare i voti del popolo, i consensi del Paese, e non i “va bene” degli opinion makers, non gli ok massmediologici assurti a giudizio di Dio. Nelle elezioni il giudizio è uno e uno solo, e si chiama voto.


di Paolo Pillitteri