A proposito dei partitini a sinistra

giovedì 8 febbraio 2018


In un quadro preelettorale come questo sarebbe naturalmente inimmaginabile che i loro leader, da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, si dichiarassero disponibili a quell’ipotesi che va sotto il nome di larghe intese, subito declassate a inciucio e contro cui sia il Cavaliere che l’antagonista a capo del Partito Democratico hanno rivolto parole dure evocando, in caso di mancata maggioranza, di destra e di sinistra, il ricorso a nuove e pressoché immediate elezioni politiche. Altro che rinnovo di un “Patto del Nazareno”, fermo restando che ciascuno dei contendenti, chi più chi meno, conserva gelosamente le proprie mosse future ed è non meno indubbio che nessuno di loro possa dirsi immune dalle riserve mentali, oggi addirittura inconfessabili anche e soprattutto perché in una competizione elettorale gli stessi alleati sono concorrenti da battere, e a maggior ragione gli avversari. Ma se allarghiamo lo spettro politico, non possiamo non soffermarci su Pietro Grasso e Laura Boldrini, che sono alla guida di una formazione appena nata e che si pone alla gauche, alla sinistra più pura e al di là di ogni sospetto, dopo una scissione (una delle tante) a sinistra.

Ed è altresì evidente che c’è la nuovissima (di nome) formazione “Liberi e Uguali” alla testa dei vari movimentini appunto a gauche, a sinistra. Liberi e Uguali di Grasso e Boldrini unisce e rappresenta una confederazione di piccole formazioni facendo soprattutto capire che cosa sarebbe il Pd se non fosse stato rifondato e ora guidato saldamente da un Matteo Renzi.

Questo il loro incipit, ma aggiungiamo subito che i “Liberi e Uguali” si rifanno esplicitamente a un vicino passato politico in cui le ideologie sono comunque identificate da un lato per una visione a un tempo sociale ed egualitaria e dall’altro per una adesione forte, indiscutibile, a quell’antifascismo senza se e senza ma, con in più e staremmo per dire ovviamente, con una non meno impositiva connotazione giustizialista, per così dire attualizzata ovverosia bonne à tout faire, cioè a mettere fra parentesi istanze e necessità garantiste. Niente di eccezionale, si capisce. Se ne sono viste di tutti i colori in questa metà di secolo. Chissà domani. E opportunamente il nostro direttore ha messo l’accento su una “LeU” in cui l’antica diatriba fascismo-antifascismo punta essenzialmente su quella concezione di puri e duri lontana dalla quale qualsiasi navigazione democratica sarebbe destinata ad affondare. Naturalmente le cose, soprattutto storiche, non stanno così. Ma tant’è.

Il punto tuttavia di partenza di ogni ragionamento, e non soltanto elettorale, deve iniziare dalla consistenza di una formazione come quella guidata da Grasso che non ha per dir così sfondato a sinistra, aggirandosi numericamente sul 6 per cento dei consensi ed è politicamente ispirata a un’ostilità antirenziana che è fondata anche su un inequivocabile risentimento (brutta compagnia per qualsiasi nuovo-vecchio partito) e su una sorta di malattia, peraltro non infrequente, che va sotto il nome di nostalgia. Legittima, si capisce, ma è la nostalgia un’arma efficace in funzione di un disegno, di un progetto, di un obiettivo? La domanda ce la rivolgiamo quando siamo alle prese con una questione che è in tutto e per tutto politica.

Peraltro questo interrogativo se lo è posto, forse meglio di Grasso e Boldrini, una indubbia vecchia volpe della politica italiana, un Massimo D’Alema che sa esercitare quella che nella Polis, dai tempi dell’Antica Grecia, si chiama capacità, abilità di manovra sulla base di una ipotetica una maggioranza in grado di assumere responsabilità di governo altrimenti, come del resto non può sfuggire a un manovriero come D’Alema, Grasso e i suoi partitini (ma non solo) sono destinati a una irrilevanza, che oggi li contraddistingue.

L’ipotesi, e non soltanto dalemiana, è quella secondo cui nel caso il centrodestra non ottenesse una maggioranza che fosse numericamente sufficiente per un incarico del Quirinale, si desse vita a una coalizione innanzitutto antifascista (il richiamo ha sempre un certo qual fascino unificatorio) con tutti gli altri partiti partecipi, dal Movimento 5 Stelle allo stesso Pd, ovviamente con la decapitazione di Matteo Renzi. E qualcuno (Italia Oggi) ha segnalato che un’ipotesi del genere non è del tutto ipotetica giacché in Portogallo c’è un governo di questo tipo, che ha unito socialisti e comunisti e protestatari per evitare un nuovo governo del centrodestra che aveva mancato di poco la maggioranza. Questo in Portogallo. E in Italia? Meno male che c’è il Cavaliere.


di Paolo Pillitteri