4 marzo e larghe intese

“Chi ha paura di Virginia Woolf?”. Si esclamava teatralmente e cinematograficamente molti anni fa, quando, soprattutto col teatro filmato, si voleva trasmettere un messaggio alle platee più vaste. Era, appunto, il cinema dell’impegno, sia pure temperato da ottimi copioni. E adesso?

Adesso, siccome prevale sempre la massima a proposito di un presente dove, tuttavia, things change, le cose della vita cambiano, spesso e volentieri è la politica, tramite la televisione, che assume il duplice, pardon triplice ruolo di regista, attore e spettatore in quella che i grandi scrittori chiamavamo il bello (o brutto) della vita.

La italiana Polis (termine che solo il greco antico riesce a riempire di ogni più vero significato) mostra spesso una sorta di affinità, spesso ai limiti della malattia, con le verifiche, i cambi, gli spostamenti da opposizione a governo e, soprattutto nelle campagne elettorali, si diverte sadicamente e/o furbamente, senza calcolare minimamente le ricadute inevitabili, a immaginare i più diversi scenari in previsione del voto. E anche post.

Intendiamoci: direi che è un obbligo pensare a quanto succederà dopo le elezioni sol che si rifletta sul ruolo fondamentale dei partecipanti al confronto in atto nel costruire con le loro proposte e i loro programmi, il dopo quattro marzo, inteso come possibilità autentica di governare un Paese non semplice, non piccolo e neppure così povero come il nostro.

E il Cavaliere l’altra sera dalla Gruber ha dato ancora una lezione di politica degna di questo nome, con una Gruber che fino all’ultimo secondo gli buttava fra le gambe i sassolini, anche privati. E vabbè. Se tuttavia si ha la pazienza di leggere o di ascoltare le volontà programmatiche - ascolto o lettura quasi inutile per i pentastellati che non hanno per davvero uno straccio di programma salvo una sequela di promesse dette un giorno e contraddette il giorno dopo a suon di insulti erga omnes - si resta colpiti, da un lato dall’assenza di qualsiasi futuribile politico di grandi intese, dall’altro dalla quotidiana dose di accuse reciproche di volere, dopo il voto, proprio quel tipo di soluzione. Con una reciprocità di smentite le quali, a ben vedere, sono sublimate dalla continuità, soprattutto da parte del M5S e della innumerevole stampa loro amica, di diffondere, con astuzia imbrogliona, la certezza pressoché matematica che l’accordo del governare insieme dopo, fra vincitori (Berlusconi) e vinti (Renzi) è cosa fatta. Persino l’Huffington Post, come ha rilevato il nostro giornale, ha garantito questa certezza sfruculiando - è proprio il caso di dirlo - su una simpatica battuta di Gianni Letta sulla Boschi.

Va pure detto che nel caso dell’assenza di una maggioranza di governo degna di questo nome, si fa in fretta a dire che il Presidente della Repubblica dovrà (anzi deve) indire nuove elezioni richiamando al voto un popolo che non si mostra assolutamente felice di questo genere di richiami, come si evincerà a urne aperte il 4 marzo. Figuriamoci dopo. E allora perché molta della cosiddetta grande stampa, compresi non pochi talk-show assurti al ruolo di vera piazza elettorale a basso costo, si sbraccia nella denuncia di questa eventualità, accusa nella quale i primi della pista, cioè della piazza, sono gli ineffabili Di Maio a gridarla, sempre nei talk, un giorno sì e l’altro pure?

Certo, lo scenario di un eventuale risultato senza una maggioranza di governo, viene ripetuto quotidianamente in faccia a quella massa di indecisi che sembra superiore al quaranta per cento degli elettori, ed è convinzione diffusa che il dato emerso dal voto sarà meno, molto meno astensionista. E se invece avvenisse il contrario? Chi vivrà vedrà, come si dice.

E a proposito del cosiddetto Di Maio-pensiero, che dire delle sue prediche condite, nel surplus di promesse e minacce, di finte preoccupazioni per l’astensionismo in fieri? Vorrebbe, come sempre, apparire il primo della classe anche in questa preoccupazione se non ne mostrasse, volente o nolente, sia una sostanziale indifferenza sia un più che sfacciato ribaltamento delle posizioni più velleitariamente intransigenti e più falsamente rivoluzionarie d’antan, approdando sul consueto plateau delle necessarie collaborazioni altrui al loro del tutto virtuale governo. Ma in che film, verrebbe voglia di dirgli. A meno che valga l’eterno proverbio: la prima gallina che canta ha fatto l’uovo.

Aggiornato il 23 febbraio 2018 alle ore 07:59