Gentiloni prudente, il Cavaliere super

Perché Paolo Gentiloni va meglio di Matteo Renzi? Perché Renzi replica che non se ne andrà neanche se perde? Perché il premier di oggi può restare, sia pure per poco, anche per il dopo? Perché funziona il Cavaliere? Perché riempie un teatro come il suo (il Teatro Manzoni a Milano)? Perché la gente accorre ai suoi comizi? E perché va in televisione e replica il successo? I perché dell’uno e dell’altro si intrecciano, si fondono ma, a ben vedere, si spiegano al di là e al di sopra di qualsiasi strategia e/o furbizia che il clima elettorale può sempre mescolare in un mélange per tutti i gusti.

È un Silvio Berlusconi uguale ma diverso da prima. Il Cavaliere ha perso le elezioni qualche anno fa e il suo partito ha subito scissioni, divisioni, spaccature varie, con relativa e consistente diminuzione di consensi. Berlusconi è reduce da anni di imposto silenzio e, al tempo stesso, di una quasi sparizione dai video della politica politicante a causa delle note vicende (e sanzioni) giudiziarie/giustizialiste. Berlusconi ha chiamato a raccolta in una fredda mattina di febbraio oltre tremila milanesi, lasciandone parecchi fuori dal Teatro Manzoni. Poco dopo Renzi ha voluto un replay per i suoi al Teatro Franco Parenti, sempre a Milano, ma la gente era assai di meno.

Silvio si è rivolto a quanti non vorrebbero recarsi alle urne domenica prossima. E ha invitato a convincere i non pochi astensionisti perché ha ben compreso che cosa significhi un aumento spropositato di coloro, e si teme tanti, che potrebbero scegliere il non voto, rimanere a casa o fare un bel week-end, manifestando una preoccupazione politica che va al di là di qualsiasi tornaconto partitico. Silvio ha scaldato i cuori meneghini con un discorso di oltre due ore, frammentato di battute - non tutte nuovissime ma sempre gradite - con proposte di riforma profonda dello Stato, come l’idea di una Repubblica Presidenziale, con tanto di referendum. Applausi!

Appunto, il referendum, l’arma fatale per un Renzi che perse il suo con un abuso di sovrastima propria e, al tempo stesso, di super personalizzazione di una riforma costituzionale – scritta, peraltro, un po’ affrettatamente – dopodiché è arrivato Gentiloni, che va meglio del suo predecessore e così crescono le sue chance di restare a Palazzo Chigi qualche tempo in più della prevista sconfitta, sia in ragione della complessità del Rosatellum che imporrà qualche attesa al vincitore centrodestra, sia perché, non essendo assolutamente roseo il futuro renziano, costui avrà tutto l’interesse di agevolare le chance gentiloniane in attesa del resto.

In attesa, qualcuno mormora di un Berlusconi, non soltanto dedito a dar vita a un governo premiato alle elezioni, ma non disattento a eventuali rischi che potrebbero esservi frapposti da un Matteo Salvini (sullo sfondo di un Roberto Maroni nient’affatto salviniano) molto più di lotta che di governo e, dunque, tentato dal grillismo nella sua gestione alla Luigi Di Maio il quale, oltre a esporre a un Quirinale basito una lista di ministri, ne ha già indicati taluni, diversi da quelli della busta quirinalizia e, dunque, della più varia specie e natura, militare, femminista e così via. Dicono che Di Maio stia ridacchiando e si diverta a fare questi giochini; altri, a cominciare dai suoi nemici interni, commentano con un beffardo: ride bene chi ride ultimo!

Peraltro, sia Di Maio che compagnia cantante pentastellata sembrano disinteressati ai sondaggi, certi come sono di avere sempre il vento in poppa. Figuriamoci se temono la minaccia più forte, quella di chi non vuole andare a votare. Ma lo sfondo del 4 marzo qual è? E i sondaggi più aggiornati cosa indicano? E gli astensionisti quanti sono, saranno? Secondo Demopolis l’astensione è oggi del 37 per cento mentre nel 2013 era del 25 per cento, con un aumento dai 12 milioni ai 17 milioni dei non votanti, mentre il 53 per cento degli intervistati, la maggioranza assoluta, dichiara che “la politica non riesce più a incidere sulla vita reale delle famiglie”. E i giovani? Peggio che andar di notte, diceva un proverbio. Infatti, il 48 per cento, quasi la metà degli under 25, non ha alcuna intenzione di recarsi alle urne. Attenzione a questo pericolo, ha insistito Berlusconi a Milano.

Aggiornato il 27 febbraio 2018 alle ore 21:15