Leu: caccia grossa a Renzi

Il leitmotiv di questa campagna elettorale è la contesa interna al centrodestra e al centrosinistra. Se per il primo schieramento la corsa alla leadership della coalizione, ingaggiata tra Forza Italia e Lega, sortisce l’effetto di attrarre consensi, sul fronte opposto la spaccatura tra il Partito Democratico e la nuova lista di “Liberi e Uguali” mira non a centrare la vittoria elettorale ma alla distruzione politica del concorrente d’area. Con una differenza di registro. Mentre i “cacciatori” di Liberi e Uguali sono agguerriti nel perseguire l’obiettivo di caccia che è la figura politica di Matteo Renzi, i generali e i colonelli del Partito Democratico non mostrano totale reattività nella difesa del proprio capo. Se fosse una gara ciclistica su pista si direbbe che i capibastone “dem” stiano in surplace, cioè fermi in attesa di vedere cosa accade il 4 marzo. Come se si preparassero, da osservatori, a misurare l’intensità dello schianto al suolo del corridore Renzi.

Ora, è possibile che gli italiani vogliano decretare la fine politica del giovanotto di Rignano sull’Arno, ma è ugualmente possibile che il tonfo del Partito Democratico, annunciato con eccessivo zelo dai suoi concorrenti, non vi sia e che, invece, tirando le somme, la compagine renziana metta nel carniere un numero di deputati e senatori tali da diventare comunque la prima forza parlamentare della prossima legislatura. Il che, nell’ipotesi che il centrodestra mancasse l’obiettivo della maggioranza assoluta, equivarrebbe, nella claudicante prospettiva renziana, a una quasi vittoria. Il fatto è che i sondaggisti, in perenne conflitto con la realtà, trascurano la capacità di penetrazione capillare del territorio che il Partito Democratico ha ereditato dalla solida tradizione comunista.

C’è, sparso per l’Italia, un esercito di riserva fatto di operatori del Terzo Settore nel sociale, di amministratori comunali e regionali, di membri dei Consigli d’Amministrazione di società in house degli enti locali e delle “partecipate” che, negli anni, ha dispensato posti di lavoro, prebende e favori a persone ed imprese indicate dal partito. Si chiama clientelismo ed è la componente patologica della politica. Tuttavia, nell’economia del voto di scambio funziona soprattutto in quelle zone del Paese nelle quali il cittadino chiamato alle urne privilegia, nella scelta, il criterio del “tengo famiglia” a quello del voto d’opinione. Quindi, nessuna s’illuda di assistere al cataclisma nel bacino elettorale del Pd. Gli eventuali cali di consenso in parte saranno colmati dall’astuta tessitura della coalizione che il “Nazareno” ha confezionato. I tre partiti satellite di “+Europa” di Emma Bonino, “Insieme” dei socialisti, verdi e prodiani di stretta osservanza e “Civica Popolare” dei superstiti del naufragio di “Alternativa Popolare” difficilmente supereranno la soglia del 3 per cento per entrare in Parlamento. Più verosimilmente, almeno due delle tre micro-formazioni si collocheranno a mezza strada tra l’1 e il 3 per cento. Ciò comporterà che tutti i voti conseguiti verranno riversati sul partito della coalizione che avrà superato lo sbarramento, cioè il Pd, gratificandolo, nel riparto dei seggi, di un numero di parlamentari superiore a quello che avrebbe ottenuto sulla base del risultato raggiunto come lista autonoma.

Dov’è, allora, che “Leu” proverà a far male agli ex sodali? La nuova sinistra ha scagliato una doppia offensiva anti-renziana. Nelle sfide dirette nei collegi dell’uninominale prova, con i propri candidati, a disturbare ovunque quelli del Pd. Inoltre, gioca sull’effetto psicologico puntando ad affondare la lama nel punto che può recare maggior danno all’avversario: la partita in Emilia-Romagna. Nella regione rossa la contesa interna alle sinistre non ha la medesima valenza che può avere altrove. In particolare per il Pd perdere quella regione significa certificare il distacco del partito dal blocco elettorale di tradizionale riferimento della sinistra che lì è un popolo, una tradizione politica, una visione del mondo. I capi di Leu hanno compreso da tempo che il tratto emiliano-romagnolo della Valle Padana potrebbe trasformarsi, il 4 marzo, nella “Waterloo” renziana. I primi segnali del cedimento del fronte rosso erano già percepibili nel 2014, in occasione dell’elezione regionale. Nella circostanza, la risposta del popolo di sinistra alla decisione del segretario “dem” Matteo Renzi di mettere cappello sul partito locale ha determinato una gigantesca fuga dal voto. Su 3.460.402 elettori se ne sono presentati alle urne 1.304.841. In percentuale il 37,71 degli aventi diritto. Il candidato renziano alla presidenza della Regione, Stefano Bonaccini, l’ha spuntata ugualmente ma la lista del Pd si è fermata a 535.109 preferenze. Una débâcle se si considera che alle elezioni del 2010, che portarono alla riconferma di Vasco Errani alla presidenza della Regione, la percentuale dei votanti fu del 68,07 e il Partito Democratico raggiunse il 40,65 per cento con 857.613 voti. Sulla fuga del popolo di sinistra dal Pd, Pier Luigi Bersani e compagni hanno concepito il progetto di dare una diversa rappresentanza a quel segmento di società estraneo alla politica “lib-lab” di Matteo Renzi.

Se il prossimo 4 marzo “Leu” riuscirà a strappare qualche collegio dell’uninominale ai “dem” e ad affiancarli nelle percentuali del proporzionale, la scommessa sarà vinta. Una sconfitta secca rimediata da Renzi nella terra che da sempre detiene la golden share sul principale partito della sinistra non potrebbe essere ignorata. Al “Nazareno” sarebbero obbligati a prendere atto che senza il contributo dell’azionista di peso emiliano-romagnolo non si governa il partito e neppure il centrosinistra. E per Renzi sarebbe game over.

Aggiornato il 01 marzo 2018 alle ore 08:04