Il pensiero di una non vittoria di Luigi Di Maio

giovedì 1 marzo 2018


Secondo qualche osservatore che la sa lunga, soprattutto letterariamente, e dunque poeticamente (Diego Gabutti), ci sarebbe da “tirare un sospiro di sollievo se non vincerà nessuno, compresi i due soli partiti che possono tentare di governare il Paese”, Forza Italia e Partito Democratico.

Insomma, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi sperano in cuor loro in una mancata reciproca vittoria il 4 marzo perché convinti che il loro governo, anche questo reciproco, avrebbe come simbolo l’instabilità e dunque andrebbe bene, per il Paese, e ovviamente per loro due, un bel governone di larghe intese.

Intendiamoci: il campo delle ipotesi è largo cento pertiche, come si dice nel milanese, e chi più ne ha più ne metta in questa vigilia elettorale nella quale si aggira lo spettro più pericoloso e più temuto, quello della vittoria del Movimento 5 Stelle. Perché? Perché il successo di un Luigi Di Maio - emblema odierno dei pompatissimi (mediaticamente) pentastellati - oltre che a simboleggiare un movimento di protesta cresciuto a base di “vaffanculo” contro tutti gli altri indica, al tempo stesso, un “partito” senza né arte né parte, ovverosia senza una collocazione ben precisa e senza, soprattutto, un programma di governo al di là di propositi cangianti e contraddittori a seconda delle occasioni del pubblico dei mass media.

E questa della funzione dei mass media, ispirata, secondo i manuali, a una sobria neutralità, si è in un certo senso tradotta in una “funzionalità” degli stessi, non di tutti per fortuna, a favore della ditta Grillo & Casaleggio sempre dipinti romanticamente con la lancia in testa contro il nemico partitocratico, corrotto, disonesto e inciucista. E oggi, che si stanno tirando le somme alla vigila di un risultato che consenta di mettere al lavoro un governo, ecco che il mago Zurlì-Di Maio estrae dal cappello una sua propria compagine esecutiva da mostrare innanzitutto al Quirinale; il mago dice per correttezza, in realtà per mere ragioni di visibilità giacché degli aspiranti e sconosciuti ministri pentastellati, al Quirinale e a chicchessia, da Berlusconi a Renzi, “non gliene può fregar di meno”, anche se…

Anche se, e qui entrano in ballo i media, ecco che il loro ruolo, persino in un evidente eccesso di uso e abuso degli abbaglianti grillini per non fare emergere la loro sostanziale assenza di qualsiasi strategia, si è adagiato in una prevalente musica di accompagnamento per una simile trovata “simpatica” e addirittura nuova se non “importante”, senza un’ombra di critica, magari divertente, per un’iniziativa che è peggio, molto peggio del “mettere il carro davanti ai buoi” (dicesi risultato elettorale) ed è non solo dettata dal mettere il fumo negli occhi, ma significa, soprattutto, una presa in giro, oltre che delle istituzioni, dei votanti per dir così distratti.

Ovviamente qualsiasi media, a cominciare da quelli della televisione, dei talk-show, dei telegiornali è libero di dire quello che vuole e di simpatizzare per qualsiasi partito. Il punto è che, praticamente, tutti questi media si proclamano non tanto o soltanto al servizio dello spettatore e/o lettore, quanto, soprattutto, della neutralità, della correttezza più schietta (che non può prevedere simpatie), della distanza da qualsiasi movimento, salvo quella di una sua messa a fuoco per meglio spiegarne motivazioni e programmi. Invece, poco o nulla di tutto questo.

Tant’è vero che una critica puntale, e non solo puntuta, è venuta dal nostro direttore là dove ha chiaramente parlato di inaffidabilità democratica del candidato premier pentastellato, sia nello sgarbo al Quirinale, per aver strumentalizzato una trovata propagandistica e con l’aggiunta della proposta di un Generale dei carabinieri in carica come ministro. Ma forse, anzi senza forse, nel caso suddetto, per certi media valeva il gesto del dare la notizia, e sta a vedere se siamo nel pieno della mitologia del “sic et simpliciter”.

Già, la notizia, il dibattito, l’inchiesta. Peraltro, a proposito di dibattiti in tv e di inchieste giornalistiche, l’ottimo Aldo Grasso, riferendosi al “Bersaglio mobile “di Enrico Mentana, ha tenuto a precisarne i limiti e i miti ricordando il lucido pensiero della Caterina Malavenda secondo cui “Il mito della notizia nonostante tutto, e quello della inviolabilità della redazione, tempio laico di un sacerdote, potrebbe indurre qualche giornalista a credere di essere legibus solutus”. A cominciare da quella della lealtà verso chi lo segue. A buon intenditor…


di Paolo Pillitteri