Elezioni e riflessioni

Intanto per cominciare: tempo di elezioni, tempo di critica al sistema di voto. Si dice che il sistema istituzionale italiano, dotato di bicameralismo per di più perfetto, sia in modo particolare faticoso. Eppure va pur aggiunto che è stato il referendum a confermarlo con una doppia bocciatura riguardante la riforma del centrodestra e poi quella del centrosinistra. Il punto dolente starebbe nella considerazione di una scelta che rende o renderebbe inevitabile una ricerca di intese incoerenti e innominabili, ma, in questo caso, le lamentazioni lasciano il tempo che trovano.

Le coalizioni, che hanno più o meno parlato di programmi ma essenzialmente dal lato della spesa lasciando in ombra il debito pubblico, parrebbero non soltanto l’una contro l’altra ma anche contraddittorie e, a un esame meno superficiale, sembrerebbero più stabili di quanto appaia. Non solo, ma offrono prospettive politiche non sempre oscure e spesso comprensibili. Ed è scontato che farà testo su tutto il risultato.

Ma, oltre a questo dato del 4 marzo, conterà molto la distribuzione dei consensi all’interno delle coalizioni, anche se tutti sappiamo che non si tratti di una novità. È peraltro possibile che la differenza anagrafica dei votanti per la Camera e per il Senato possa creare una vera e propria situazione di stallo al punto che il più che probabile successo del centrodestra fra gli elettori di età matura e del M5S fra i giovanissimi potrebbe determinare rapporti di forze diversi nei due rami del Parlamento.

Per scongiurare un’ipotesi di stallo politico, Sergio Mattarella aveva chiesto di unificare i sistemi elettorali ma va comunque detto che l’invito – e il risultato! – non sono bastati a risolvere questo problema. Del resto, se per davvero ciò che fa la differenza è ravvisabile nella diversità delle basi elettorali, non esiste e non esisterà un sistema elettorale che è in grado di aggirare una simile problematicità.

Si sente dire, anche in modi ultimativi, dai due grupponi contendenti il traguardo di marzo, che di fronte a risultati che non diano una maggioranza autosufficiente in Parlamento si verifichi una condizione di assoluta ingovernabilità, con conseguente ritorno alle urne. La lingua batte dove in dente duole verrebbe voglia di commentare rispetto alla condizione non infrequente di una non governabilità uscita dalle urne. Ma occorre un’altra riflessione, ancorché maliziosamente giudiziosa, che riguarda il prima e il dopo elezioni. Nel prima i partiti sono in un certo senso obbligati, costretti a negare qualsiasi tipo di accordo post-elettorale per chiedere e ottenere consensi, ma “una volta che i voti saranno conteggiati si porranno ovviamente il problema di come dare uno sbocco politico alla legislatura, e parlarne prima di conoscere i veri, autentici rapporti di forza non avrebbe molto senso e sarebbe comunque controproducente per i leader delle coalizioni” (Italia Oggi).

Intendiamoci, ogni tempo di elezioni è tempo, anche, di giaculatorie, alcune delle quali di segno mediatico, e noi non ci chiamiamo fuori, ma soprattutto politico nel senso che saranno esclamate con ritualità ripetitiva, in nome di quel repetita iuvant che è bensì un richiamo-appello forte all’identità e al consenso ottenuti, ma è al tempo stesso un invito alla coerenza. Tutto vero, lo sappiamo, tutto giusto. Ovvio verrebbe da dire.

Ma sullo sfondo i leader (quelli veri, non quelli abili solo nella pagliacciata scodellando nomi ministeriali funzionali a mascherare il nulla politico e programmatico) dovranno confrontarsi sul risultato di un voto politico che esprime e racchiude la volontà degli italiani ed esprime la sovranità popolare a cui ogni vero democratico ha l’obbligo di confrontarsi. Certo, il Quirinale farà leva su questo essendo suo dovere costituzionale cercare una soluzione di governo, ma senza alcuna possibilità per superare il vincolo della maggioranza da ottenere alla Camera e al Senato.

Tocca dunque ai partiti, e ai loro leader. Quelli veri.

Aggiornato il 02 marzo 2018 alle ore 08:00