Se “responsabile” è tornare al voto

La parola che in queste ore circola con maggiore frequenza ai piani alti della politica è “responsabilità”. L’ha invocata il Presidente della Repubblica rivolgendosi ai partiti in vista della formazione del nuovo governo. Ma altrettanto la richiamano tutti i protagonisti in campo per legittimare ognuno la propria posizione. Sono responsabili i renziani quando dicono di voler stare all’opposizione lasciando ai “vincitori” l’onore e l’onere di guidare il Paese. Ne parla Luigi Di Maio nel momento in cui chiede, con disarmante velleitarismo, alle altre forze di fornirgli senza contropartita i voti mancanti per varare un governo a sua immagine, più che a sostanza grillina. La invoca per sé Matteo Salvini quando afferma che la presa di Palazzo Chigi è il compimento di una volontà maggioritaria nell’elettorato più produttivo. Da ultimo invoca senso di responsabilità anche Silvio Berlusconi che preconizza un allargamento del centrodestra alla componente renziana del Partito Democratico nella prospettiva che questa dia un taglio netto al cordone ombelicale che ancora la lega al socialismo novecentesco.

Alla luce di questa Babele di linguaggi e di obiettivi l’unico rischio certo è che, nel buon nome della responsabilità, si finisca in uno scomodo stallo istituzionale. Per uscire dall’impasse occorrerebbe che tutti i protagonisti della scena, nessuno escluso, s’interrogassero sul contenuto del concetto di “responsabilità”, in relazione al tempo storico presente. Cos’è davvero responsabile? Dare un governo al Paese a tutti i costi, anche se per combinarlo si desse luogo a un’innaturale commistione tra opposte offerte politiche? O forse non è più salutare associare il termine “responsabilità” a quello di “coerenza” stabilendo tra i due concetti una complementarietà? La risposta non va domandata ai filosofi ma desunta dalla volontà popolare quale si è manifestata nelle urne. Il punto fermo posto il 4 marzo scorso è che la grande maggioranza del popolo non vuole soluzioni rabberciate. Lo ha dimostrato il fatto che tutti i partiti che nella scorsa legislatura hanno partecipato a governi di larghe intese sono stati, sebbene in misura differente, penalizzati nelle urne. Piaccia o no, gli italiani prediligono la chiarezza di un sistema bipolare. Quindi, niente tripolarismo come si è erroneamente teorizzato in questi ultimi anni. La sconfitta del Partito Democratico non è stata una crisi fisiologica nell’andamento ciclico dei rapporti di forza tra i partiti. È stata una débâcle causata dal progressivo sgretolamento di un’area politica tradizionale.

Non si tratta di un fenomeno solo italiano. L’allontanamento della sinistra dall’orizzonte visuale della società segue una linea di caduta che riguarda la crisi della socialdemocrazia in tutto l’Occidente sviluppato. Ciò, tuttavia, non si traduce meccanicamente nella scomparsa della categoria concettuale/valoriale della sinistra a vantaggio della destra. Stiamo piuttosto assistendo ad una mutazione genetica dei rispettivi campi d’attrazione del consenso per effetto della quale, nel futuro prossimo, vivremo un rimescolamento che finirà per riscrivere i fattori identitari tanto della sinistra quanto della destra. Il fulcro intorno al quale ruoteranno i due concetti riformati riguarderanno sostanzialmente l’approccio alla visione del futuro dell’umanità, la conseguente perimetrazione che, nelle singole realtà comunitarie, l’azione dello Stato dovrà rivendicare rispetto alle libertà sociali ed economiche dei singoli cittadini e i rapporti di forza che si instaureranno tra gli Stati nello scenario geopolitico globale. Si radicherà la visione pessimistica della capacità delle società post-industriali di autoriformarsi per cui, a fronte dell’aumento endemico delle povertà, dovrà essere lo Stato a farsi carico, attraverso un sistema di welfare fortemente assistenzialistico, di sostenere la cittadinanza. A questa visione si contrapporrà quella che invece ritiene che la soluzione stia nel lasciare più spazio di manovra ai produttori privati perché, incrociando domanda e offerta sul mercato, da se stessi troveranno l’energia e le risorse adeguate per migliorarsi e, per effetto indotto, risollevare il tono complessivo delle comunità alle quali appartengono. Per dirla con uno slogan: “Flat tax versus reddito di cittadinanza”. Che poi è ciò che abbiamo già visto contrapporsi, in un’appassionante accenno ad una “sfida di mondi”, nel gradimento degli italiani la scorsa domenica. Se dunque siamo nella fase di ridefinizione di un nuovo bipolarismo, è altamente improbabile che le forze partitiche che ne sono protagoniste vogliano interromperne il naturale decorso. Ciò si traduce nell’impossibilità di trovare la quadra per un governo di larghe intese.

Sarà, perciò, inevitabile che si torni alle urne. Stiano tranquilli coloro che temono un voto-fotocopia del 4 marzo. Il processo di erosione che ha interessato il bacino elettorale del Pd è destinato a subire una rapida accelerazione. Il rinnovato confronto porrà gli italiani, che spesso hanno dimostrato di essere più lungimiranti della classe politica che li ha governati, di fronte a una scelta chiara: indirizzarsi verso il modello grillino, riformulato da Di Maio, di una sinistra diversamente progressista dando ragione alla profezia di Eugenio Scalfari sulla definitiva ricollocazione dell’informe Movimento Cinque Stelle in qualcosa di certo e riconoscibile, oppure, in alternativa, imboccare la strada della nuova destra nella quale sempre più prevarrà la pulsione identitaria e sovranista rispetto a quella liberale e riformista.

Mettiamoci tranquilli e attendiamo gli eventi nella consapevolezza che un voto in primavera inoltrata, al massimo dopo la pausa estiva, non sarà la fine del mondo. Anzi, se servisse a far sì che gli italiani scelgano una buona volta quale futuro darsi, sarà cosa buona e giusta tornare al seggio.

Aggiornato il 13 marzo 2018 alle ore 08:07