Il ritorno del sempre uguale

Non si scappa, ricordava spesso l’insuperabile Leonardo Sciascia: ci toccherà, prima o poi, assistere al ritorno del sempre uguale. E non importa(va) il riferimento, se alla mafia e ai suoi eterni sistemi o al potere o, ancora di più, alla politica.

Il fatto è che, senza limitarci al repetita iuvant, che pure dovrebbe consigliare sempre una ripetizione, almeno per non sbagliare, il problema della politica italiana post 4 marzo ci sta offrendo la copia esatta o quasi del ritorno a qualcosa che somiglia ai suoi precedenti su su, fino agli albori democratici.

Il déjà-vu è dunque lo spettacolo, peraltro necessario, di tutti i partiti che cercano, chi più chi meno una via d’uscita alle complicazioni derivate da un voto che, a sentire di molti, avrebbe dovuto invece semplificare il paesaggio e offrire un passaggio, una strada maestra. Per dove? Ma per il governo, si capisce. In verità, è sempre stato così e sempre sarà.

La novità del dopo-elezioni non può che essere quella del Movimento 5 Stelle, non solo e non tanto per il successo indiscutibile ottenuto, ma per le promesse avanzate a più non posso e che devono o dovrebbero avere una loro risposta. Ma procediamo con calma. Intanto, assistiamo a un Pd – che resta comunque una forza per dir così stabilizzante, tant’è che Silvio Berlusconi ne ha accennato con qualche puntura al decisionismo da aut aut salviniano – alle prese con problemi di non poco conto benché riassumibili, benevolmente, in prove tecniche del dopo-Renzi, laddove l’aggettivo dovrebbe essere modificato – e lo sarà, eccome se lo sarà – con un’aggettivazione squisitamente politica nella misura con la quale la Polis italiana non può che ottenere dai piddini, siano essi renziani, post-renziani, antirenziani e astenuti, una risposta non solo sul da farsi al loro interno ma anche all’esterno, che è poi quello che conta, in politica.

In questo senso l’invito al Pd da più parti, a cominciare dalla nostra, di lasciar perdere con il vetusto e poco utile (soprattutto per loro) disegno e proposito di unità delle sinistre, serve anche a porre ascolto a una lucida indicazione di Vittorio Sgarbi a proposito della specializzazione grillina con la macchina del fango, sottolineandone il funzionamento che si evince dal perentorio loro invito a mettere in atto quella guerra fangosa: “Questo è l’obiettivo, distruggetelo!”.

E se del Cavaliere sono noti gli inviti più alla prudenza dei toni (ma non solo di quelli), va notato come nel salvinismo che ha vinto alla grande sono intanto spariti o quasi termini-obbiettivi incarnati nella Lega di Bossi, emblematizzati dal federalismo che, oggi, non pare così in cima ai pensieri di Salvini e dello stesso Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia il quale, l’altro giorno, ha dichiarato solennemente che l’importante, per Salvini e per la Lega, è governare. Conta, insomma, il governo di Roma adesso che l’obiettivo è a portata di mano leghista. Non a caso, un altro leader “lumbard” come Bobo Maroni, invita a riflessioni per dir così nazionali ed europee, obbligate per chiunque voglia assumere compiti di governo di una nazione come la nostra.

E i pentastellati, che fanno? Che pensano? Che faranno? Con un presidente come Luigi Di Maio, anche lui in pectore ma dall’alto di un bel 30 per cento e più di suffragi, la musica che lo spartito gli offre oggi non è molto diversa, e non solo da quella di Salvini. A parte i toni che, si sa, devono farsi sentire, soprattutto dalla base, Di Maio deve cioè compiere un passo che è strettamente necessario in politica, e non solo, e che è un passaggio: dalle parole, dalle promesse, ai fatti. Certo, il suo no secco a un governo di scopo è quasi ovvio e le polemiche con Pier Carlo Padoan sono anch’esse già scritte nel copione.

Ma ecco che appare, proprio in una seria dichiarazione del leader (indicato) pentastellato e comunque col governo nel cuore, una parolina, un termine, una indicazione a suo modo simbolica e dunque al grillismo estranea, nemica, da sempre aborrita, da sempre scacciata come simbolo dell’eternità di una politica vecchia, corrotta e dannosa per il Paese: stabilità. Per di più accompagnata alla rivendicazione-proposta di “misure sempre ispirate a questa”. Con tanto di proposta di un reddito di cittadinanza quasi ex novo e comunque in sei punti. Non sempre del tutto chiari.

Un già visto, per così dire.

Aggiornato il 14 marzo 2018 alle ore 08:06