Domanda: il governo a chi?

Si fa presto a dire: voglio andare al governo. Tocca a me. Adesso comando io. Governerò. Si fa presto, soprattutto a parole, anche se andare a governare oggi è un tantinello meno allettante di ieri. E i perché li conosciamo un po’ tutti. E tuttavia qualcuno deve (dovrà) occupare Palazzo Chigi, prima o poi, e al di là dei non improbabili rinvii del Governo Gentiloni il quale, del resto, sa meglio di tutti che il suo tempo sta per finire. E adesso?

Checché se ne pensi pro domo propria – peraltro legittimamente – a chi tocca andare avanti, a chi tocca la poltrona esecutiva lo sappiamo molto bene e lo sanno anche loro: il Movimento 5 Stelle e i leghisti, seguendo, appunto, questo uno/due.

Sono loro due, con l’ovvia (o quasi) investitura formale quirinalizia che debbono rivolgersi agli altri partiti (cominciando dal proprio, beninteso) con un programma degno di questo nome, ancorché composto di pochi punti, facendo dunque le rispettive proposte programmatiche sulle quali, dibattito e confronto avvenuti, possano e debbano richiedere e raccogliere il consenso. Per governare.

Ma Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i due vincitori oggettivi (come si diceva una volta), dopo aver contato le schede deposte il 4 marzo nelle urne, si sono dovuti accorgere di una vittoria – lo vedono anche i bambini delle elementari – i cui numeri sono insufficienti a mettere insieme una maggioranza in Parlamento, diversa comunque da quella di un’alleanza fra di loro alla quale, volenti o nolenti, il tipo di alleanza di oggi è fra opposti, per dire. Opposti mica tanto, aggiungiamo. Ma gli atteggiamenti pubblici dei due “vincitori” divergono nella misura con la quale le dichiarazioni salviniane paiono sostanzialmente essenziali, al di là di insistenze e ripetizioni al popolo plaudente.

Il discorso su Di Maio riguarda – per chiunque ne ascolti con neutralità le uscite nazionali e internazionali – una evidente “instancabilità verbale inversamente proporzionale alla qualità (verbale)” e comunque sempre a testa bassa contro i nemici mostrando di pretendere dagli altri partiti una convergenza sul programma di cui il M5S è portatore, fermo restando che qualsiasi osservatore, pur distratto, non ha ben capito non soltanto se e come i pentastellati intendono governare, ma sulla base di quali proposte e, soprattutto, sulla base di un programma degno di questo nome. Dai populisti, sembra un nonsense attendere un governo. Ma se vincono, come la mettiamo? Vediamo.

Quanto è accaduto a Torino, governante una sindaca pentastellata, è abbastanza significativo e di certo illuminante di quella che poteva essere una volta, cioè prima e durante le elezioni, una opposizione dura e pura, rabbiosa, urlata erga omnes, contro tutto a cominciare dalle Olimpiadi invernali e ora, al di là dell’uscita favorevole del grande boss, costretta a fare i conti con situazioni in cui la comunità grillina sarà sempre più chiamata a esprimere non soltanto dei “No” ma non pochi “Sì”, con allegati punti programmatici nient’affatto eversivi. Punti programmatici, non più punti esclamativi.

E la sinistra, cioè il Pd, che fa, com’è messa, che chiede? Naturalmente ha detto e giurato che non tocca a lei governare. Ha perso, e di brutto, per dirla alla milanese. E c’è da crederle, fino a prova contraria. L’aspetto diciamo così curioso dell’ultimo Pd, con un Matteo Renzi in panchina (si fa per dire) e con un reggente come un ex ministro più placido che mai, è un muoversi tanto ispirato alla cautela e un discorso politico quasi sottovoce, al di là del fatto politico che con quel 18 e rotti per cento ottenuto c’è poco da sbraitare, ma soltanto da aspettare (e soprattutto sperare, da quelle parti) un errore di entrambi i vincitori, specialmente di Luigi Di Maio. Non improbabile, a quanto pare. Perciò spicca come un merito, anch’esso politico, il silenzio di Silvio Berlusconi. Ha detto a Salvini di andare avanti. Tocca a lui.

Al Cavaliere, invece, basta aspettare. Per ora...

Aggiornato il 15 marzo 2018 alle ore 07:30