I rischi delle larghe intese

Com’era inevitabile che accadesse, nell’incertezza politica che si è determinata dopo il voto del 4 marzo i media nazionali si esercitano in una frenetica gara ad azzeccare il prossimo Governo della Repubblica.

Tra le tante ipotesi sul tappeto non poteva naturalmente mancare quella delle cosiddette larghe intese la quale, soprattutto per gli sconfitti, potrebbe rappresentare, al di là delle chiacchiere sul senso della responsabilità, un’ottima occasione per rimescolare le carte del consenso, per così dire. Ma al fine di ottenere quest’ultimo risultato, la complicata alchimia politico-programmatica dovrebbe vedere tra i protagonisti il Movimento 5 Stelle, ossia la forza politica che ha profondamente alterato il precedente equilibrio basato sull’alternanza tra centrodestra e centrosinistra.

In questo senso, ma solo in questo, ha ragione Luigi Di Maio a sostenere che è finita la Seconda Repubblica. Tuttavia lo stesso capo politico dei grillini, per quanto giovane e inesperto possa apparire, difficilmente si farebbe convincere dai suoi più navigati avversari a entrare in un’ammucchiata, magari sotto l’etichetta di un Esecutivo del presidente, che snaturerebbe le ragioni di fondo che hanno portato il M5S a raccogliere sotto le sue bandiere circa un terzo degli elettori italiani.

Per quanto in parecchi si sforzino di avvalorare la svolta governista e normalizzatrice impressa al suo movimento da Di Maio, a mio avviso più di facciata che di sostanza, qualunque tipo di alleanza diversa da quella che i pentastellati continuano a ribadire anche dopo il voto, ovvero qualcosa di simile a un monocolore a 5 Stelle sostenuto in Parlamento sui temi da qualche volenteroso, toglierebbe loro due dei principali cavalli di battaglia: l’essere nuovi e l’essere diversi rispetto ai politici tradizionali.

In questo senso, nella prospettiva di una legislatura che preannuncia abbastanza breve, nell’eventualità si formasse un Governo di larghe intese, anche con l’apporto di eventuali transfughi grillini, il M5S avrebbe tutto da guadagnare a restarsene fuori, rispolverando i panni dell’oppositore duro e puro.

Un siffatto scenario ben si adatterebbe a un quadro politico drammaticamente adattato da molto tempo a vivere alla giornata. Tuttavia, una inconcludente ammucchiata di larghe intese verrebbe percepita da buona parte dell’elettorato, così come è accaduto con la sciagurata legge elettorale voluta dal Partito Democratico, come l’ennesimo tentativo di tenere gli unti del Signore a 5 Stelle lontani dalla stanza dei bottoni, con il rischio concreto di far crescere ancora moltissimo il loro consenso.

Sotto quest’ultimo aspetto, e qui concludo, mi pongo nuovamente il quesito di alcune settimane addietro: per il Paese sarebbe meglio sperimentare al più presto il bluff politico-programmatico dei grillini, in modo da consentire alla realtà di fungere da giudice supremo delle loro folli promesse, oppure renderli ancor più forti sul piano dei voti, tanto da correre il rischio di ritrovarceli nella stanza dei bottoni con una maggioranza parlamentare autosufficiente?

Nel primo caso, come ha recentemente teorizzato l’ottimo Tobias Piller all’indomani del 4 marzo, mandando Di Maio a Palazzo Chigi con un Esecutivo di minoranza, sorretto da una sorta di sfiducia costruttiva, alle prime serie difficoltà percepite dalla popolazione basterebbe semplicemente staccare la spina, riportando sulla terra Di Maio e gli altri suoi colleghi specializzati nel raccontare sogni irrealizzabili.

Aggiornato il 21 marzo 2018 alle ore 12:49