Il vecchio che avanza

Ricordate venti e più anni fa quando arrivavano nuovi, nuovissimi protagonisti della vita pubblica impersonati, se vogliamo, dal pool di “Mani Pulite” e seguì a ruota la Seconda Repubblica sulle ceneri della prima? Ebbene, allora si usava, come salutando un evento, l’esclamazione e il saluto passati alla leggenda come il nuovo che avanza, laddove per nuovo s’intendeva soprattutto l’emblema dipietresco.

Ricordiamo, certo. E si sa che fine abbia fatto quel simbolo. Ma siccome gli italiani sono recidivi con gli pseudo-eventi, rieccoci alle prese con un’altra novità che si chiama Luigi Di Maio (il miles gloriosus come nota assai felicemente il direttore) che per molti, grazie a non pochi mass media, indispensabili ora al grillismo come allora al manipulitismo, viene accolto sotto l’insegna della novità assoluta, di colui che irrompe nel vecchiume. Insomma, è Gigetto Di Maio il nuovo che avanza.

Ora, a una sia pur minima lettura delle molteplici sue dichiarazioni, che sembrano prestampate dato il cellulare sempre attaccato alle orecchie del nostro miles, non può non apparire a dir poco vecchia la sua proposta del contratto; una parola prestata, forse, dai tedeschi, ma in realtà proveniente dagli usi e dagli abusi del sistema di prima che allora, tuttavia, veniva definito col termine appropriato: spartizione, lottizzazione, io do una cosa a te e una a me. Adesso rieccoci alla lottizzazione ma sotto il nome di contratto, che fa più chic.

Lo sappiamo, il Movimento 5 Stelle tradotto spesso in leggenda, cambia le parole vere per farsi bello e nuovo e pure rivoluzionario, ma la sostanza è sempre quella. E infatti dalle parole siamo passati alle carte, ma quelle da poker in cui, c’è da riconoscerlo, il grillismo dà il meglio di sé anche e soprattutto in ragione del suo totale rifiuto della verità elettorale sol che si pensi all’insistenza nel porre urbi et orbi l’unica candidatura a Palazzo Chigi, in quanto l’occupante futuribile sta recitando la parte di uno eletto dalla stragrande maggioranza del popolo quando invece, come andiamo ripetendo alla noia, è soltanto un italiano su tre che l’ha votato. Qualcuno doveva dirglielo, e non si esclude che nell’incontro sul colle più alto la melodiosa voce del suo occupante abbia ricordato questo piccolo, piccolissimo dettaglio scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione. E, forse, qualche suggerimento a chi voglia governare con un partito col 32 per cento dei consensi, sull’obbligo costituzionale di alleanze, dovrebbe essere scaturito, sia pure sommessamente. Chissà.

Ma se il bagaglio propositivo pentastellato contro tutto e contro tutti - sia pure con la bandiera sventolata contro i vitalizi già abrogati e comunque riguardanti meno di trecento persone - contiene vecchie cose spacciate per nuove, il suo aspetto più singolare sta nella sua quasi comica conventio ad excludendum che non è soltanto il vecchio gioco del “vengo anch’io, no tu no!”, ma dell’escludere a priori qualcuno di un altro partito (metti un Renzi e un Berlusconi) e poi forse ci sediamo a un tavolo (non da gioco, ma politico) e parliamo.

Il caso di Berlusconi è tuttavia ancora più grave, anche e soprattutto perché Beppe Grillo, Davide Casaleggio e il Di Maio Triumphans sanno perfettamente che il Cavaliere non è un protagonista, capo, presidente di un partito, ma è il partito. Berlusconi è Forza Italia, un movimento che il 4 marzo scorso ha preso circa cinque milioni di voti che non sono caduti dal cielo ma da quel popolo italiano che Luigi Di Maio indossa e mostra a ogni piè sospinto. Come non si possa in una democrazia parlare con un movimento, figuriamoci poi allearsi, che ha un programma e un progetto chiarissimi, dall’Europa, alla crescita, all’ordine pubblico, all’emigrazione, alla disoccupazione e che, per di più, ha il presidente del Senato, eletto peraltro anche dai pentastellati (bontà loro), è un mistero che prima o poi il mitico Rousseau ci svelerà.

E poi lo chiamano il nuovo che avanza.

Aggiornato il 06 aprile 2018 alle ore 12:38