Quali destini per centrodestra e Pd?

Il fine settimana appena concluso restituisce l’immagine di due poli, quello del centrodestra e quello del centrosinistra, in cammino. Verso cosa? I due blocchi non navigano nella medesima direzione. Il primo viaggia alla ricerca di una soluzione di governo che faccia il bene del Paese; il secondo è in cerca di se stesso. Nel pomeriggio di domenica i leader del centrodestra si sono incontrati per concordare il comportamento da tenere in vista del nuovo giro di consultazioni al Quirinale.

Il trio Berlusconi-Salvini-Meloni ha deciso di presentarsi assieme perché se è vero che la forma è sostanza, lo schierarsi uniti al cospetto del presidente della Repubblica costituirebbe un segnale di forte impatto per chi, tra gli avversari, ha puntato le proprie carte sulla rottura della coalizione. Che non c’è stata per il semplice motivo che sarebbe stata un non-senso: il centrodestra o è unito o non è. Lo sanno bene i suoi contraenti. Forse dovrebbero meglio comprenderlo gli aspiranti ad un improbabile governo Cinque Stelle-Lega. Se, dunque, il quadro a destra resta nitido, altrettanto non si può dire del centrosinistra. Di fatto, dopo la tempesta elettorale, di quella coalizione sopravvive soltanto un Partito Democratico che non è quello degli anni migliori quando si proponeva col paradigma del partito-nazione candidato a rappresentare tutte o quasi le espressioni articolate della società civile. In un contesto europeo nel quale l’ideologia del socialismo democratico è in profonda crisi d’identità anche il Pd italiano deve interrogarsi su cosa vorrà essere nel prossimo futuro; se intende sperimentare soluzioni sulla falsariga del laburismo anglosassone di marca corbyniana oppure se voglia tentare l’avventura macroniana. Matteo Renzi, quando era in auge, si era procurato non poche critiche e qualche risatina nel proporsi, all’indomani del successo di Emmanuel Macron nella corsa per l’Eliseo, come il suo omologo italiano.

Quella che al momento sembrava una boutade propagandistica probabilmente aveva un senso prospettico ignoto agli analisti e ai commentatori nostrani. Che Renzi avesse percepito la dimensione della sconfitta che si preparava per il suo partito come un segno della fine di una storia? Se così fosse si confermerebbe la qualità personale del politico che, anche a dispetto di alcuni clamorosi fuori pista, resta pur sempre considerevole. Dunque, Renzi avrebbe visto per tempo la fine dell’egemonia di un Pd divenuto storicamente inattuale? Quindi, il rimedio individuato nella svolta macroniana sarebbe nel trascinare tutto ciò che è sopravvissuto del suo campo dopo il 4 marzo in una lunga traversata del deserto. Con quale obiettivo? Dare vita ad una formazione strutturata che, pur mantenendo ancoraggi nell’ideale progressista della società aperta e solidale, sarà diversa e distante dalla tradizione politica del socialismo democratico Otto-Novecentesco.

Ma un processo di riposizionamento filosofico e strategico di tale portata non è compatibile con la partecipazione attiva alle schermaglie in corso per la composizione di una maggioranza, in sé disomogenea, a puntello di un governo presieduto da uno dei due non-vincitori del 4 marzo: alternativamente Luigi Di Maio o Matteo Salvini. Ciò spiegherebbe l’atteggiamento assunto dai gruppi parlamentari del Pd che i “media” hanno definito impropriamente: aventiniano. Dalla strategia dell’ex-segretario “dem” non emerge alcun proposito di protesta da rendere visibile mediante un rifiuto al dialogo con le altre forze parlamentari. D’altro canto, non c’è una pulsione totalitaria dei vincitori alla quale far mancare l’alibi dell’opposizione costruttiva per delegittimarne la natura democratica. La pausa decisionale adombrata da Renzi somiglia di più alla tappa mosaica sul Monte Sinai nell’attraversamento del deserto in vista della Terra promessa. Ma, come nel racconto biblico non tutto il popolo d’Israele ebbe la fermezza di aspettare che Mosè facesse ritorno con la nuova Legge, nell’odierno Pd non tutti hanno voglia di aspettare il giorno della riscossa, sentendosi tentati dallo scendere a patti almeno con il dio pagano dei grillini. L’incertezza sul da farsi potrebbe provocarne a breve l‘ennesima scissione. Che non è il male assoluto se la traumatica fase di transizione del Pd dovesse effettivamente condurre alla scrittura di una nuova pagina del progressismo democratico. Comunque, tanto a destra quanto a sinistra sono in corso trasformazioni che si preannunciano nel segno della continuità con quel passato che pure si intende archiviare.

A dispetto della falsa mitologia della “rottamazione” che è stata una costante carsica nella narrazione della Seconda Repubblica già prima della comparsa sulla scena nazionale dell’astro Matteo Renzi, è il divenire inclusivo dei protagonisti politici dell’ultimo quarto di secolo che dà il senso alla nuova stagione del cambiamento. Che nei suoi esiti concreti non ci condannerà a morire grillini come, nel 1994 con la nascita di Forza Italia, soggetto politico caratterizzato dalla confluenza nella medesima forma partito-movimento di espressioni del liberalismo e del conservatorismo tardo-novecenteschi, si evitò che si finisse tutti revanscisti, chinati in preghiera sui cadaveri sfigurati della Democrazia Cristiana e dei suoi satelliti laici e moderati.

Aggiornato il 09 aprile 2018 alle ore 14:07