Regionali Molise: Monsù Travet batte Masaniello

Il Molise non è l’Ohio. Tuttavia, il voto di domenica nella seconda regione più piccola d’Italia potrebbe ugualmente impattare sul quadro politico generale. A spoglio non ancora ultimato si registra la vittoria del candidato del centrodestra, Donato Toma, che ha staccato di larga misura il competitor Cinque Stelle, Andrea Greco. Fuori dalla partita invece il candidato del centrosinistra, Carlo Veneziale, che occupa il terzo gradino del podio. Quali elementi possono ricavare le forze politiche da questa prova elettorale, seppure molto circoscritta?

In primo luogo, il dato dell’affluenza che si ferma al 52,17 per cento degli aventi diritto. Un crollo se si considera che alle urne del 4 marzo scorso si era recato il 71,62 per cento degli elettori molisani. La minore partecipazione riporta la piccola regione, cerniera tra il Centro e il Sud del Paese, ai valori medi di affluenza rilevati negli ultimi anni. L’incrocio di questo dato con la forte diminuzione del consenso al Movimento Cinque Stelle conduce a concludere che il voto delle politiche del 4 marzo, particolarmente partecipato, sia stato utilizzato dai cittadini per inviare un messaggio di protesta alla politica nel suo complesso. Al contrario, i medesimi elettori, chiamati a scegliere a chi affidare il governo del territorio, hanno in maggioranza preferito rivolgersi alle formazioni partitiche tradizionalmente presenti nelle realtà locali e perciò più affidabili. Il 43,63 per cento, non lontano dalla maggioranza assoluta, ottenuto da Donato Toma in un sistema di voto caratterizzato dalla presenza di tre poli attrattori rappresenta un successo per un centrodestra che conferma la sua cifra strutturale nella pluralità delle anime che lo compongono. A margine, si rileva come la proiezione del dato locale sul quadro politico nazionale intervenga a demolire in via definitiva la fallacia del ragionamento politico di Luigi Di Maio fondato sulla negazione ontologica della natura unitaria e inscindibile della coalizione di centrodestra.

Altro spunto di riflessione è dato dalla distribuzione del consenso all’interno del centrodestra. Nelle 392 sezioni scrutinate su 394, Forza Italia ha raggiunto il 9,40 per cento contro la Lega all’8,24 per cento. Quindi, sembrerebbe che Salvini al Sud abbia colmato il gap che lo separa dallo storico alleato. Non è così perché ai consensi a Forza Italia devono essere aggiunti quelli alle liste centriste, organiche alle posizioni della maggiore espressione del Partito Popolare europeo in Italia. In particolare: “Orgoglio Molise” 8,39 per cento, “Popolari per l’Italia” 7,14 %, Udc 5,14%, “Iorio per il Molise” 3,60 per cento. Sommate, le forze dell’area moderata hanno fornito al candidato unitario del centrodestra un solido 24,27 per cento.

Se lo schema del terzo incomodo centrista tra Lega e Forza Italia dovesse riprendere quota anche in altre zone del Mezzogiorno, una volta chiamate ai rinnovi dei rispettivi governi regionali e delle amministrazioni locali, la rappresentazione del Sud in totale appannaggio dei Cinque Stelle risulterebbe errata. Saremmo in presenza di un bizzarro uso dello strumento elettorale da parte dei meridionali: le urne delle politiche utilizzate per canalizzare la protesta e lanciare un segnale di monito al potere centrale; le elezioni amministrative, invece, depositarie di un voto orientato alla selezione della classe politica sulla base dell’affidabilità e della competenza a gestire al meglio la macchina pubblica territoriale. Che poi, a ben vedere, è la lettura della vicenda siciliana: successo del centrodestra, capitanato da uno stimatissimo Nello Musumeci, alle regionali del 5 novembre 2017 e cappotto elettorale dei grillini, appena 4 mesi dopo, alle politiche del 4 marzo scorso.

Messa così il centrodestra ha un problema: vincente quando si tratta della politica di prossimità ai bisogni dei cittadini, perdente o non sufficientemente vincente quando in gioco è il destino dell’intero Paese. Come annullare la distonia? Non è facile e non lo si fa d’incanto. Una buona base di partenza potrebbe essere l’estensione anche ad altre aree del Paese del “modello Liguria”. In quella regione il buon governo del presidente forzista, Giovanni Toti, ha avuto un effetto positivo che si è riversato sul voto nazionale.

Finora, dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, lo schema di gioco è stato inverso: i candidati del centrodestra traevano la spinta propulsiva dalla buona immagine, nazionale e internazionale, che il vecchio leone di Arcore proiettava dal centro del sistema sull’organizzazione partitica in tutte le sue ramificazioni locali. Le urne delle ultime politiche hanno mostrato che l’effetto-Berlusconi ha perso appeal.

Quindi, molto più proficuo affidarsi al meccanismo strategico del “Bottom-up”: ricostruire il consenso maggioritario della componente liberale della coalizione a partire dal basso, dalle performance dei suoi amministratori locali. Molto allora potrà servire alla causa della rimonta di Forza Italia ciò che il neo-eletto Donato Toma saprà fare per la sua piccola regione. Meglio sarà se di lui si dirà che è un Toti all’ottava piuttosto che un Berlusconi in sedicesima. Perché, mentre nessuno più, dopo un decennio di devastante crisi economica e di senso della civiltà occidentale, pensa nella vita di ripercorrere le orme di una storia personale costellata di successi imprenditoriali, politici e sociali qual è stata quella del vecchio leone di Arcore, l’idealtipo weberiano alla Giovanni Toti, dalla faccia di pacioso ragioniere che fa bene e senza particolare enfasi il suo lavoro, è nelle corde dell’immaginario dell’italiano medio. Si direbbe che siamo alla rivincita di Monsù Travet sui “Masaniello arrevotapopolo” di tutti i generi.

Aggiornato il 24 aprile 2018 alle ore 11:49