Festa del 25 aprile, la solita storia

Questo “25 aprile” non fa per noi. Non che in passato andasse meglio. Sempre troppo rosso, troppo “Anpi”, troppo “Che Guevara”, per i nostri gusti. Insomma, una festa della sinistra per la sinistra: off limits per tutti gli altri. Come se l’Italia l’avessero liberata soltanto loro, i “rossi”, dall’occupazione nazista del dopo “8 settembre”. Come se le armate alleate non avessero fatto nulla per ricacciare indietro, fino alla resa finale, le truppe della Wehrmacht. E le famigerate SS, le Schutzstaffel. Eppure, ci stava un piccolo ritocco alla verità per raccontare un’altra storia, magari più benigna verso il ruolo svolto dai comunisti negli anni della guerra civile italiana, tra il 1943 e il 1945. In fondo, abbiamo perdonato agli americani decenni di filmografia partigiana sulle “eroiche” gesta della cavalleria yankee scatenata contro quei sudicioni di indiani che si ostinavano a non farsi sterminare. Abbiamo atteso pazienti il 1970 perché il regista Ralph Nelson portasse sul grande schermo “Soldato blu” per vedere sul banco degli accusati i “buoni”. Con la medesima pazienza avremmo continuano ad accettare la favoletta dei liberatori “rossi” dimenticando le canagliate di cui alcuni dei loro si sono macchiati, profittando del caos bellico; trascurando il particolare che i “rossi”, nel mentre combattevano le truppe naziste, facevano di conto perché al tavolo della spartizione l’Italia, magari anche solo quella del Nord, finisse nel carniere dei sovietici. E al grido di “ora e sempre resistenza” abbiamo cancellato dalla memoria Porzûs e le vittime della brigata partigiana “Osoppo”, proditoriamente cadute per mano dei gappisti organici al Partito Comunista Italiano. E ci siamo contentati che i “compagni” assumessero il volto tenero e simpatico del “Peppone” di Giovannino Guareschi, piuttosto che quello sanguinario e violento di un Pietro Secchia che da dirigente del Pci polemizzava con Giorgio Amendola a proposito della Contestazione studentesca del ’68 di cui scriveva: “Non è pensabile di fronte a un movimento rivoluzionario di tanta importanza prendersela con le esagerazioni più estremistiche e anarcoidi. La rivoluzione non si è mai fatta nell'ordine. Anche per quanto riguarda le forme di lottA… non si può, da un lato, preparare le masse a condurre forti lotte economiche e politiche, a impegnare una lotta più decisa contro la Nato e il Patto Atlantico, a saper fronteggiare eventuali tentativi di colpo di stato e dall'altro lato sparare a zero contro i giovani che sanno affrontare la polizia, che si allenano alle lotte più dure...”.

Insomma, abbiamo mandato giù un bel po’ di rospi in nome della pacificazione che non c’è mai stata tra italiani che si sono combattuti, tra vincitori e vinti. Ma a tutto c’è un limite. Assistere ai maneggi di una lobby, qual è divenuta oggi l’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), che rilascia patenti di antifascismo a chi gli aggrada, è un oltraggio insopportabile. Consentire l’emarginazione della Brigata ebraica dai cortei celebrativi per fare posto alle bandiere delle associazioni pro-palestinesi è stato un insulto alla verità storica. Già, perché quelle bandiere, come ha ricordato ieri l’altro Dimitri Buffa sul nostro giornale, al tempo del nazismo e della Seconda guerra mondiale sfilavano accanto a quelle degli aguzzini, non dei liberatori. Negli anni del conflitto, tra il 1939 e il 1945, il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, massima autorità dell’Islam nel Vicino Oriente, s’impegnò personalmente in una vasta opera di proselitismo affinché i giovani musulmani, in prevalenza provenienti dalla Palestina, si arruolassero negli eserciti dell’Asse. I ricercatori dell’Istituto Simon Wiesenthal di Los Angeles, ravanando negli archivi del controspionaggio Usa, hanno rinvenuto una gran mole di documenti che danno testimonianza inoppugnabile di quanto i leader religiosi e politici palestinesi collaborassero con la Kripo (la Polizia Criminale nazista) e la Gestapo.

La foto che accompagna l’articolo di Buffa ritrae lo storico incontro del Gran Mufti con Adolf Hitler il 22 novembre 1941. Il momento immortalato dallo scatto della macchina è quello in cui Amin al-Husseini dice al Führer: “Gli arabi devono essere considerati amici naturali della Germania…”. Detto fatto, con la creazione della “Legione Araba Libera” e dei reparti musulmani inquadrati nella 13ma Divisione da montagna SS Handschar e nella 21ma Divisione da montagna Skanderbeg. Ciò che faceva di quei musulmani il fiore all’occhiello delle SS, l’esercito personale di Heinrich Himmler, era l’odio irriducibile per gli ebrei. Il medesimo ignobile sentimento che si è visto all’opera ieri quando i filo-palestinesi, a Roma come a Milano, hanno salutato con una bordata di fischi il passaggio della rappresentanza degli ebrei ex-deportati nei campi di concentramento del Reich. Agli epigoni di Amin al-Husseini è stata data ospitalità nei cortei perché s’infilassero in qualcosa che non avrebbe dovuto appartenergli se non fosse per l’ipocrisia dilagante che sta divorando il nostro Paese. Quella stessa ipocrisia che consente a una lobby che detiene il copyright dell’antifascismo di decidere chi ci può stare e chi no alle celebrazioni del 25 aprile. È, dunque, cosa loro la festa della Liberazione? E allora che se la tengano! Ma ci risparmino la manfrina che è la festa di tutti gli italiani. Perché è una balla che non sta in piedi.

Aggiornato il 26 aprile 2018 alle ore 10:52