Ma chi ha vinto le elezioni?

Matteo Salvini o Luigi Di Maio? Silvio Berlusconi o Beppe Grillo? Centrodestra, Partito Democratico o Movimento 5 Stelle?

Domande che ritornano alla mente più volte, almeno quante sono le apparizioni irrefrenabili del sovraesposto televisivo Luigi Di Maio che, dunque, appare il vero vincitore e si accinge ad accedere - o lui chi per lui - a Palazzo Chigi. Diciamocelo almeno inter nos: il 4 marzo ha vinto il centrodestra, un’alleanza fra Salvini, Berlusconi e Meloni che, pure, governa comuni un po’ dovunque in Italia? Un’alleanza e non un contratto, che vede il Cavaliere in minoranza rispetto al leader leghista, ma pur sempre vivo e vegeto e comunque “elemento politico” indispensabile per la gestione di un accordo che vedeva i due quasi simili a marito e moglie. E adesso?

Adesso soccorre il grande August Strindberg laddove pronuncia che “un uomo può conoscere e scoprire tutti i segreti dell’universo, ma non potrà mai capire il mistero di sua moglie”. Ma di misteri non ne vediamo tanti in questo paragone per dir così mistico dove, semmai, al posto di mistero dovremmo metterci indifferenza o sottovalutazione in un Salvini dal vento così in poppa che sempre o quasi nelle peregrinazioni col un nuovo “marito” per accordarsi dimentica non tanto o soltanto un ricordo fattivo del primo ma, a quanto pare, lascia cadere non poche delle basi non solo costitutive ma vincenti del centro destra nel suo insieme.

Questo è uno dei punti su cui vale la pena una riflessione per l’oggi e soprattutto per il domani se è vero come è vero che il governo si farà anche sulla base del chilometrico contratto - dopo le diverse bozze rivedute e corrette - che somiglia di più a un elenco della spesa che a un programma di governo. E perciò la domanda generica sul vincitore del 4 marzo non soltanto è legittima ma diventa più specifica se rivolta all’alto Colle le cui responsabilità costituzionali sono ben note, a cominciare da quella sull’incarico di governo che dovrebbe toccare al detentore della maggioranza di azioni politiche dopo il dow jones di quasi tre mesi fa.

E bene sottolinea il nostro direttore questo ruolo del Quirinale anche e soprattutto come ultima speranza sia per lo stesso Salvini che per un Paese che ha bisogno di una compagine governativa preparata e all’altezza di una situazione a dir poco complicata, sia dentro che fuori, basti osservare le note europee preoccupate non foss’altro perché, respinte tutte le ingerenze, resta un fatto anzi un Continente di nome Europa con relativa moneta unica. Ma il discorso su Salvini in gara con Di Maio in una sorta di excursus dei mali e dei rimedi italiani (e si vedrà se ai primi corrisponderà il riformismo necessario per i secondi, ma ne dubitiamo fortemente) non può non toccare il senso, il significato e il futuro di un centrodestra che non sarà più quello di prima che conosciamo e che, repetita iuvant, ha vinto le elezioni.

In realtà tale non è già da oggi e Berlusconi deve ben saperlo non solo o non tanto per le cosiddette dimenticanze narcisistiche salviniane nei suoi confronti, quanto e specialmente per una incombente frattura dell’alleanza sui contenuti e sugli obiettivi in cui il prevalere di un populismo dalle forti venature giustizialiste che sono un vero e proprio distintivo del grillismo di lotta prima e di governo ora, non può contraddistinguere l’alleanza stessa, a parte le varie novità economiche escogitate che hanno comportato la scomparsa dalle tante pagine del programma di qualsiasi cenno di compatibilità finanziaria senza cioè mai dire chi le dovrebbe fare e, soprattutto, chi dovrebbe pagarle. Per non dire di quell’incredibile Comitato di Conciliazione che evoca i fantasmi staliniani, anche se è scomparso dalla stesura finale. Pardon, non scomparso ma rinviato. Alla prossima.

 

Aggiornato il 19 maggio 2018 alle ore 11:01