Il contratto è una favola senza lieto fine

“Il reddito di cittadinanza è una misura attiva rivolta ai cittadini italiani al fine di reinserirlo...”.

Reinserirlo? Il mondo ci guarda e noi facciamo errori di sintassi sui documenti programmatici ancorché essi siano in bozza. Cominciamo malissimo, ma andiamo avanti perché questo periodo lo avrà scritto sicuramente Luigi Di Maio di suo pugno. Per chi si è accostato senza preconcetti alla lettura del cosiddetto “Contratto di Governo” – termine gentile con cui i protagonisti della nuova repubblica si ostinano a definire un normalissimo compromesso – la sensazione che se ne ricava è quella di una profonda delusione.

Ci si poteva aspettare di non essere d’accordo nel merito, ma mai si sarebbe potuta prevedere una tale concentrazione di luoghi comuni e di banalità a tal punto puerili da far cascare le braccia. A livello di macro argomenti ci sono inspiegabilmente molti dei cavalli di battaglia dei Pentastar (giustizialismo manettaro, conflitto di interessi, reddito di nullafacenza, vincolo di mandato, costi della politica) e solo in subordine qualche spruzzatina di leghismo (flat tax a due aliquote che flat non è, immigrazione, carceri, legittima difesa).

Non si capisce come abbia potuto Matteo Salvini consegnarsi in questo modo ai Cinque Stelle lasciando ai grillini, dopo il programma, anche la facoltà di indicare il Presidente del Consiglio. Scendendo più nello specifico, ma evitando nel contempo una inutile ricostruzione analitica dei singoli paragrafi ormai noti a tutti, c’è troppo Stato in questo programma di Governo: sussidio di cittadinanza, acqua pubblica, Alitalia pubblica, Banca pubblica degli investimenti (la Cassa del Mezzogiorno reinventata settant’anni dopo), Rai pubblica, interventi di welfare pubblici, condoni e menate simili come a volerci sbattere in faccia che il tanto agognato “nuovo” non è null’altro se non il vecchio statalismo. Quello stesso Stato che i contraenti hanno sempre avversato se non demonizzato.

Residualmente ci sono frattaglie di liberalismo sparse come la compensazione tra debiti e crediti con la Pubblica amministrazione e un embrione di flat tax messa lì a ricordarci che uno dei contraenti è la Lega. Per il resto è tutta una enunciazione di problematiche arcinote accompagnate da definizioni che sembrano prese da Wikipedia e costellate da tutta una serie di “si dovrebbe”, “si potrebbe”, “bisognerebbe”, “è prioritario avviare una serie di interventi diffusi”; tutte dichiarazioni di principio che non spiegano il come si intenda attuare l’enunciazione teorica e le risorse economiche da utilizzare.

“So’ boni tutti a mettece ‘na scritta” dice Corrado Guzzanti nella famosa canzone “Grande Raccordo Anulare” in cui fa la parodia di Antonello Venditti: non era l’esposizione dei problemi che affliggono l’Italia il nodo da sciogliere (quelli li conoscono tutti), ma piuttosto la puntuale esposizione di ciò che si intende fare per approcciarli. Gli immigrati sono troppi è il problema; bisognerebbe rimandarli a casa e rivedere i trattati internazionali è l’obiettivo; ci sfuggono la soluzione e le relative fonti di finanziamento dell’intera operazione.

Altrimenti ci troviamo di fronte a una massa di temi la cui generica “soluzione” cuba più o meno centoventi miliardi di euro (a tanto ammonta il contratto di governo) senza sapere quali siano le ricette del nuovo che avanza e quali siano le fonti economiche cui si intende attingere (forse il debito pubblico?). Altrimenti che il turismo, la green economy e la cultura siano cose belle mentre la corruzione e la delinquenza siano cose brutte lo poteva scrivere anche un bambino in meno giorni.

Da qui la profonda delusione per la montagna che ha partorito il topolino, per il consesso di aspiranti leader che si è chiuso per giorni ad elaborare strategie onde poi produrre poco più che la lista della spesa senza un soldo nel portafogli. Ma invece per i soliti analisti benpensanti lo scandalo è il Comitato di Conciliazione – l’organo che dovrebbe risolvere le controversie di governo – che non è altro se non quello che da De Gasperi in poi erano i vertici di coalizione atti a trovare delle posizioni comuni preservando la stabilità del Governo. Forse formalizzando irritualmente la consuetudine del vertice di maggioranza nel contratto i pentaleghisti sono stati, diciamo così, “candidi” ma non hanno certo sovvertito le Istituzioni Repubblicane (a proposito: nel contratto si parla di XVIII legislatura repubblicana come se esistesse anche la XVIII legislatura monarchica).

Un plauso (forse l’unico) va invece all’atteggiamento dignitoso che la costituenda coalizione – Salvini in primis – ha tenuto nei confronti dei commenti sprezzanti provenienti da Bruxelles e da Emmanuel Macron, colui che come Sarkozy si sente Napoleone. Costoro non sono abituati a un’Italia indipendente ma la preferiscono serva muta da bacchettare pubblicamente in ogni momento.

Ciò dimostra che la politica dei presentabili, cioè di coloro i quali in Italia ci hanno voluti allineati alle cancellerie europee pensando che fosse il viatico per essere ammessi al salotto buono non ha prodotto rispetto nei nostri confronti rendendoci invece sgualdrina da ingiuriare se per caso osa avere pretese.

Se Francia e Germania sforano il patto di stabilità non avvisano certo preventivamente e nel contempo nessuno da Bruxelles si permette di alzare la voce. Se la Germania ha una bilancia commerciale in surplus o monopolizza il mercato europeo sono tutti omertosi. Se invece l’Italia osa mettere in discussione gli ordini provenienti dalla Germania è sbertucciata ogni due per tre manco fosse Fantozzi con il mega direttore galattico subendo odiose ingerenze atte a sovvertire l’ordine democratico per mezzo di un artificio chiamato spread. E se i partner europei fanno muri o rifiutano la equi-distribuzione dei migranti, poco male: qualche rimbrotto bonario sotto voce ma nulla di più. Se l’Italia pensa invece di esercitare la propria sovranità superando i trattati europei (giusta pretesa visto che è stata lasciata sola) scatta la euro-reprimenda al grido di “a Roma arrivano i barbari”.

Bene ha fatto Salvini a precisare che è meglio essere barbari che sudditi riferendosi anche ai numerosi euro-camerieri presenti nei palazzi romani. Il contratto di governo fa schifo (la Lega ci ripensi e si sfili subito) ma Di Maio e Salvini hanno tutto il diritto di indirizzare le politiche nazionali senza che da Bruxelles o da Parigi nessuno si azzardi a dare giudizi contando su più di una sponda interna alle istituzioni italiane. Se Carla Bruni scrive canzoni e il sobrio Juncker scrive la politica europea, perché Di Maio non potrebbe affermare di aver scritto la storia?

Aggiornato il 18 maggio 2018 alle ore 21:04