E dopo tanti proclami e parole

Una volta le nostre mondine (e non solo loro) cantavano dalle risaie: “Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar”, con quel che segue. Era una delle tante canzoni di protesta del tempo che fu, e che, fortunatamente, pardon “storicamente” cioè secondo la storia che avanza, possiamo oggi metterla sulle labbra ai tanti, ma sono proprio tanti gli italiani che dopo quasi tre mesi di parole, paroloni, proclami, assicurazioni e organigrammi, hanno assistito a uno stop quirinalizio.

Giusta o sbagliata (diremmo inevitabile) che sia, questa decisione di Sergio Mattarella riporta l’orologio della crisi agli inizi come se il tempo si fosse fermato. Invece no e i due protagonisti di un film mai iniziato davvero ma con la scritta fine su uno schermo largo tanto quanto l’Europa, se non di più, cercano di rifarsi, se non una verginità (politica) impossibile, una nuova e diversa credibilità. Va meglio per Matteo Salvini che, pure, qualche riflesso non proprio positivo ne sta avendo; ma Luigi Di Maio, rimanendo nel campo narrativo classico, non chieda per chi suona la campana: perché suona, anzi è suonata per lui. E, diciamocelo almeno inter nos, non sarà un bel sentire per il leader di un ensemble pentastellato che, grazie a lui, e nonostante i pugni giustizialisti & populisti minacciati urbi et orbi, si ritrovano col classico pugno di mosche in mano. E il Cavaliere? Pare che, proseguendo proverbiando, se la rida sotto i baffi.

La strada delle massime è bensì lastricata di buone intenzioni ma, nel contempo, non sembra spesso la più frequentata da chi ne ha più bisogno, e i risultati sono da vedere come nel caso di Di Maio la cui parlantina, soprattutto in questi tre mesi, è risuonata più di tante altre, forse per inesperienza (è giovane, si farà, si diceva una volta) ma indubbiamente per un eccesso di sicurezza dovuta di certo al brillante risultato pentastellato ma anche a quel cattivo gusto della sua compagnia a ritenersi più bravi, più onesti, più capaci, più meritevoli, più tutto di tutti anche e specialmente rispetto a un Salvini che si è trattenuto più spesso delle altre volte, dagli urli e dalle promesse ancorché accompagnate dal solito ensemble di abbracci coi suoi, di toni più aspri ai nemici, di una certa sufficienza nei confronti di un Silvio Berlusconi non premiato dalle urne ma da oggi più necessario che mai a un’alleanza uscita vincitrice dalle urne.

Il governo è stata la bandierina più e più volte agitata dal duo con la specificazione dimaiana del “governo del cambiamento” della cui nascita Di Maio aveva assolutamente bisogno dopo giorni e settimane buttate al vento giocando coi due forni, il contratto, il referendum fra gli iscritti e l’annuncio che si stava riscrivendo - nientepopodimeno che - la storia del Paese. Peraltro, i grillini, contro tutti gli altri, salvo loro, che ambiscono di andare al governo, è di una certa attualità la maledizione giustizialista per chi vuole andare nel formaggio del potere, a mangiare. Era l’accusa preferita da loro contro gli altri. Che si è rovesciata. Si difenderanno, a parole.

Parole, parole, parole cantava l’immortale Mina, ma in politica il verbum detto e stradetto, cantato e teletrasmesso su tutti i canali, presenta un conto salato a chi non ne fa seguire i fatti, posto che il fatto, cioè l’ultima parola, la più importante, risiedeva, risiede e risiederà sul Quirinale, come da Costituzione e da prassi. E ciò dicasi senza alcuna enfasi ché per il Colle più alto, persino un qualsiasi minus habens dei nuovi ospiti del Parlamento, il rispetto del dettato costituzionale, benché obbligato, è tanto più necessario quanto più devono, e non solo possono, soccorrere le istanze non solo nazionali ma internazionali allorquando la posta in gioco altro non è che la moneta unica. Unica per gli italiani e per gli europei, con quel che segue.

In questo senso la proposta ministeriale di Paolo Savona, al di là di qualsiasi polemica antecedente e susseguente, non poteva non suggerire una riflessione in più ai proponenti nei confronti di un economista bensì di chiara fama ma non alieno dalle più volte ribadite convinzioni sull’Euro sostenendo da un lato che l’Italia ha sbagliato ad entrarci, dall’altro che è necessario prevederne una via d’uscita, più prima che poi. L’impuntatura dura dimaiana e quella più morbida salviniana, nonostante l’aleggiato nome sostitutivo di Giancarlo Giorgetti, è stata accompagnata da un vero e proprio diluvio di presenze televisive dove non è bello (e vero) ciò che è bello ma ciò che non viene contraddetto e i pentastellati di scuola casaleggiana (tutti) amano la non contraddizione. Salvo lamentarsi di un Colle che la pensa diversamente, e allora vai con le parole dure, le proteste, i proclami altisonanti, le minacce di impeachment degne peraltro, a sentire un tempestivo Renato Brunetta, di chi ha preso un colpo di sole. E di chi ha parlato troppo dimenticando che in politica, ma non solo, giammai ti pentirai d’aver taciuto, sempre d’aver parlato.

Aggiornato il 30 maggio 2018 alle ore 11:08