Nuovo governo fra paure, speranze e scissioni

venerdì 1 giugno 2018


A guardarli in faccia non si direbbe. Luigi Di Maio e Matteo Salvini sono sempre stati in televisione, praticamente da mane a sera, non escludendo ore notturne, con volti molto meno assorti per un governo difficile da conquistare e gestire ma molto più disponibili ai – compiaciuti e compiacenti – primi piani frammezzati a sequenze in movimento, al punto che quest’edizione governativa sembra(va) a tutti gli effetti la continuazione del film della campagna elettorale, a sua volta proseguimento del modo nuovo di fare politica grillino e leghista, cioè sotto l’occhio della telecamera. Il fatto è che, prima o poi, i conti da fare non sono più con i seducenti e seduttori poteri massmediatici.

Non tanto o non soltanto perché il contatto con i cosiddetti “altri” (oltre che con i propri, ma è un altro discorso) è indispensabile al di là della potenza dei mezzi visivi di comunicazione, ma per la ragione, invero banale, che il contatto altrui va ben oltre lo schema elettoral-elettoralistico in quanto termometro delle situazioni di quella cosa che si chiama la politica.

La politica, appunto. Che sembrava praticamente dissolta nelle puntate senza fine di una spettacolarizzazione compiaciuta, è comunque ritornata prepotentemente alla ribalta dopo che il Quirinale ha battezzato un neonato atteso da quasi tre mesi: il Governo.

Hic Rhodus, hic salta, verrebbe voglia di salutare questo Esecutivo che, almeno a parole, è nuovo davvero, e dunque il termine di esperimento ci sembra il più appropriato per l’invero inaspettata realizzazione di una compagine che vede per la prima volta due populismi al governo di una grande nazione. I due contraenti sono, come si dice, simili, suonano la stessa musica sia pure su spartiti diversi, ma la comune lotta al mondialismo ha trovato soprattutto nel salvinismo l’urgenza della volontà di una riappropriazione della sovranità nazionale lasciando sullo sfondo una comunanza europea che ha nell’Euro il simbolo praticamente inscalfibile di un obbligo, oltre che di una necessità. E non solo per i mercati.

Non è un caso che sia stato l’incalzare del terzo incomodo chiamato spread il fattore quasi decisivo per l’accelerazione di quel battesimo con Sergio Mattarella benedicente ma dopo quei quattro giorni di braccio di ferro istituzionale fra lo stesso capo dello Stato in difesa del proprio potere di cambiare, per motivi di opportunità, la lista dei ministri, e Movimento 5 Stelle e Lega che premevano per fargli accettare il nome dell’economista sostenitore della necessità di un “Piano b” per l’uscita dell’Italia dall’Euro.

L’avvento di un governo come questo non poteva e non può non essere accompagnato da paure per un difficile impegno, non più elettoral-propagandistico ma esecutivo, da mostrare da parte di due partiti antisistema ma anche da speranze affinché le certezze per un periodo di stabilità e comune benessere siano garantite, ma che non prendano il sopravvento le, per ora soffocate, demagogie di entrambi su uno scenario politico nel quale le opposizioni, soprattutto il Partito Democratico, sono in una fase che dire di stanca è fin troppo ottimistico. Il fatto è che il panorama politico è stato letteralmente sconvolto. Il centrodestra c’è ancora? Il liberalismo di Forza Italia sopravvivrà? E Silvio Berlusconi? Sono domande impellenti che certamente si stanno imponendo, oltre che a noi osservatori, ai protagonisti di un post 4 marzo, in primis al Cavaliere che non potrà non prendere, al di là degli atteggiamenti nei confronti del governo, decisioni rispetto sia a un’alleanza andata in frantumi – pur sopravvivendo in sede locale – per volontà di uno scissionista, sia pure premiato dalle elezioni ma in virtù di quell’alleanza, e ora rafforzato stando al governo e, non vi è dubbio, con un occhio impietosamente goloso nei confronti degli elettori forzaitalioti.

Aqui està el busillis, per dirla coll’immortale Don Chisciotte della Mancia. E Berlusconi lo sa. È la politica.


di Paolo Pillitteri