Quel passaggio inevitabile, dalle parole ai fatti

Se durante la campagna elettorale grillina la questione dell’articolo 67 della Costituzione sembrava necessitare di revisione a proposito di libertà dei parlamentari dopo le grandi trasmigrazioni degli anni scorsi da una sponda all’altra, è stata di attualità per qualche giorno la stessa libertà del premier che, secondo la visione pentastellata deve eseguire un programma del quale non è stato neppure redattore, apparendo d’un tratto come un Presidente del Consiglio bensì in carica, ma al guinzaglio. E la libertà sua?

Ma forse è presto per dirlo. Anzi, senza forse, sarebbe meglio aspettare qualche prova. Di che? Della cosiddetta libertà del Premier in carica, rispetto anche e soprattutto ai cosiddetti “suoi”, cioè i grillini. E anche i pentastellati. In verità, una certa quale autonomia, ancorché timida, si va delineando dopo la dissoluzione delle nebbie postevi sopra dai rispettivi leader, a cominciare dalla fatidica frase del vice presidente del Consiglio Di Maio (Luigi XIV, a proposito!): “Da oggi lo Stato siamo noi”.

Ha fatto notare il nostro direttore, pacatamente come sempre, che non è che lo Stato sia diventato pentastellato, ma sono i grillini ad essere entrati nello Stato. E la differenza non è di parole ma di sostanza. Siamo, in altri termini, usciti dalle atmosfere mediatiche e comizianti di una campagna elettorale cui i tecnici del settore dovranno prima o poi compiere analisi meno superficiali di quante se ne sono lette, al di là della sostanziale bonomia massmediatica che ne ha accompagnato e contraddistinto le promesse sbandierate a destra, a manca e pure al centro, facendo di Beppe Grillo non tanto o non soltanto una carta vincente ma una carta assorbente: di consensi e simpatie altrui. Tant’è che non una ma ben due opposizioni, sia pure con la testa fasciata per il botto subito, devono darsi da fare per recuperare ruoli, presenze e capacità nel Parlamento e nel Paese, in una sorta di guardiani del fiume.

Il punto più vero è che all’impetuosità di un fiume che ha travolto margini e spazi elettorali, si va sostituendo, ancorché frammista alle superstiti uscite comiziesche e altisonanti, un atteggiamento più riflessivo anche e specialmente negli ambiti più vicini a quell’improvvido “L’état, c’est moi!” che, a quanto pare, sembra aver confuso lo Stato (che è di tutti) con il Governo (che è cosa loro). Per ora.

Si tratta, per dirla con un antico ma sempre attuale adagio, di passare dalle parole ai fatti che, nella misura con la quale sono stati urlati fino al 4 marzo buttandoli in faccia agli altri al governo, ritornano non soltanto di attualità ma necessitanti di risposte ben diverse e ben lontane dai comizi, peraltro vincenti.

I fatti, dunque. A cominciare dall’immigrazione quotidiana su cui Matteo Salvini ha puntato i suoi occhi, e che comunque, lo stesso giorno delle promesse ultimative, ha buttato sulle nostre coste il quotidiano bagaglio umano in fuga dalla fame e dalla miseria. Come si dice, un campanello di allarme. Sappiamo che i rimedi non ci sono dalla sera alla mattina, ma i fatti sono fatti, per chiunque. E le promesse da mantenere, il più possibile.

Il caso odierno della flat tax, nel mirino dei vincitori da mesi, offre comunque una pausa di riflessione, soprattutto ai governanti, sulle difficoltà di sempre di quel passaggio da parolaia a fattuale nel senso che, già da subito appare quanto mai indispensabile un suo rinvio al 2020,con qualche correzione di un lucido Armando Siri. Ma tant’è. Sicché un attento e giustamente poco diplomatico Renato Brunetta ha ributtato la palla nel campo avverso bollando né più né meno che come chiacchiere gli impegni pentastellati a proposito di tasse. E non è la campagna elettorale che continua, ma i fatti. Che ci sono e ci saranno.

Aggiornato il 06 giugno 2018 alle ore 13:24