Un partito liberale non può stare fermo

E vabbè che i partiti di un tempo non sanno più reagire. E vabbè che stanno fermi. E vabbè pure che s’è perso il significato dell’immensa massima del “chi si ferma è perduto”. Ma poi?

Poi si va alle elezioni, come domenica, e si comincia con le scuse anticipate definendo “locale” la chiamata alle urne. Locale certo, ma anche segnale, termometro, avviso ai naviganti, altrimenti che elezioni sono?

Elezioni che si svolgono a poche settimane dai successi di Beppe Grillo, ottenuti sulla protesta e via insultando (gli altri), ma comunque un successo per dir così in piena autonomia, in solitaria. Quello di Matteo Salvini del tutto autonomo non era e non è per la quasi ovvia constatazione che il suo 27 per cento è meritato fin che si vuole, ma ottenuto e pure garantito non da una corsa solitaria ma dall’alleanza con Forza Italia e Fratelli d’Italia.

Intendiamoci, meriti e bisogni, pre e post elettorali, sono strettamente imparentati con le rispettive leadership sullo sfondo di alleanze che, nel caso della Lega, vedono uno dei più noti protagonisti politici come Silvio Berlusconi, impegnato direttamente in una battaglia comune che, tra l’altro, ha dato ottimi frutti sfiorando il 40 per cento il 4 marzo, cioè ottenendo la maggioranza relativa e dunque superando quei protestanti grillini che, assurti a Palazzo Chigi, hanno innestato la marcia indietro delle proteste inneggianti al “vaffa” e ora plananti su calme acque da solcare e pianure fertili da dissodare. Anche coi posti, con gli enti statali, con le società partecipate e via occupando. È la politica.

Ma quale sia, oggi, la politica di Forza Italia e del Cavaliere è una domanda che ci si pone a fronte di un sostanziale immobilismo dovuto, secondo qualcuno, allo choc della scissione di Salvini, benché di mobilità precedente non se ne siano viste tracce significative. Tant’è che un implacabile Filippo Facci (Libero) ha impostato la sua stoyrtelling parlando di grande assente chiedendosi se qualcuno sappia che fine abbia fatto la sparita Forza Italia. E vai con gli appunti critici, peraltro ben noti a tutti, a cominciare dal Cavaliere e dai suoi collaboratori più o meno stretti. Il presupposto di ogni analisi, peraltro, parte con la sottolineatura della indispensabilità del leader fondatore e interprete unico, il che è addirittura ovvio, ma il resto, ovvero la restante FI, gli altri che la rappresentano in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni e nel Paese che fanno? Che dicono? Che vogliono?

Non sembrino queste domande retoriche a risposte, quelle sì retoriche, che tirano in ballo l’assenza di organi, di centri direzionali, di comitati direttivi, di organismi decentrati, ecc.. Sarano pure assenti queste entità, con lo sfondo di una non sempre chiara linea sfuggente alla cosiddetta politica unitaria sui diversi temi di fondo della società italiana in uno dei suoi momenti più necessari di interventi di chi fa politica, fra cui le parole, i tweet, le proposte on-line, i propositi di critica e di riforma, i dibattiti, le partecipazioni, il coinvolgimento nelle discussioni e così via. Di questi addendi si avvale un partito se vuole raggiungere e attivare quella somma di presenza nella politica in grado di contestare, modificare, migliorare lo stato della cose. Magari riflettendo ad alta voce sullo sgambetto salviniano a un’alleanza, peraltro vincente, che a non pochi osservatori è apparso per nulla elegante non tanto o non soltanto nella forma, che pure conta, ma nella sostanza, innanzitutto presente nella misura nella quale questa scelta ha consentito la nascita di un governo con un Movimento 5 Stelle antiberlusconiano dalla nascita e che su tante questioni imperversa e imperverserà, in primis il giustizialismo di fondo intrecciato con un populismo moraleggiante da quattro soldi, ma pur sempre popolare e comunque al governo.

E nel futuro non è affatto difficile scorgere nei disegni di Salvini un ripescaggio sistematico nelle file e soprattutto nei consensi di una Forza Italia che sembra come pare ferma e sembra abdicare, se non alla sua funzione di garante non di un’alleanza più o meno tradita, a quella di un partito che da sempre vede e difende il pensiero liberale, la sua attualità, la sua necessità, il suo intramontabile appeal. Di cui l’Italia ha un bisogno assoluto, come l’aria che respira, giacché il liberalismo è di per sé una garanzia non solo di rispetto del pensiero altrui, ma di un costante sviluppo delle più vere libertà dell’individuo e della collettività e della stessa economia nel contesto europeo e globalizzato.

Chi e che impedisca ai non pochi rappresentanti berlusconiani nelle diverse sedi istituzionali di parlare alto e forte il linguaggio liberale, di difendere, far crescere e far vincere queste istanze, non lo sappiamo. Ma sappiamo che rinunciarvi con silenzi, distrazioni, indifferenze e paure è peggio di un crimine: è un errore.

Aggiornato il 12 giugno 2018 alle ore 10:14