Prescrizione, presunti impuniti e cultura inquisitoria

giovedì 14 giugno 2018


A volte basta una frase per comprendere uno scenario complesso. Sul processo penale si assiste da anni a un perenne dibattito sui temi più vari: intercettazioni, separazione delle carriere, misure cautelari, prescrizione, impugnazioni e via discorrendo. L’emergenza è permanente e non c’è settore che non si voglia riformare. L’insoddisfazione è diffusa ed è difficile orientarsi. Un contesto ad alta entropia, direbbe un fisico. A ben vedere, però, i perpetui scontri in materia sono tutti figli di una sola, semplice questione: a cosa serve il processo penale.

La risposta dovrebbe essere immediata: a verificare l’ipotesi di reato; accertare se un fatto delittuoso sussista, chi lo abbia commesso e se il “reo” – dimostrato che sia tale – sia punibile. E conseguentemente assolvere o condannare. Una nozione quasi scolastica. Eppure, per molti lo scopo del giudizio penale è la condanna. Nessuno che abbia un minimo di cultura ed esperienza specifiche lo affermerebbe espressamente, beninteso. Tuttavia ogni giorno si possono registrare, sui media, esternazioni che esprimono, più o meno consapevolmente, non è dato saperlo, esattamente questa visione del processo.

Una recente inchiesta de “L’Espresso” ne è l’esempio. “La giustizia in Italia è solo per i ricchi”, titola Paolo Biondani lo scorso 8 giugno. Un pezzo (verrebbe da dire: sorprendentemente) “aperto”: si evidenziano i vantaggi della finalità rieducativa della pena e dei benefici penitenziari (un basso tasso di recidiva) si rileva come la insicurezza percepita sia decisamente maggiore di quella reale. Poi un inciso, secco, che esprime l’idea colpevolista del processo: “Prescrizione significa che il reato c’è, l’imputato lo ha commesso”.

Un’affermazione profondamente errata in punto di principio. La prescrizione è un fatto – il decorso di un certo quantitativo di tempo, variabile a seconda della gravità dell’illecito – che fa venir meno l’interesse, da parte dello Stato, all’accertamento di un reato, alla individuazione dell’autore, alla condanna dello stesso. Superato un dato lasso cronologico, la verifica e la (eventuale) punizione di un fatto delittuoso costano alla società più di quanto possano rendere. Dunque non vale la pena di tenere in piedi un processo. Se così è – e così è – sul piano concettuale, quello che conta quando si deve ragionare in termini di visione, e di conseguenza di orientamento, del sistema repressivo, affermare tout court che la prescrizione implichi la sussistenza del fatto e la responsabilità di chi ne è accusato è un errore madornale ed è, soprattutto, la negazione della necessità e della natura del processo (inteso in chiave moderna e costituzionale) che serve proprio a verificare tali presupposti.

Certo, si potrebbe obiettare che un’impostazione del genere è naif, che chi frequenta gli ambienti giudiziari “sa” che in molti casi il proscioglimento ha impedito una sicura condanna. Ma questo significa spostare il discorso sul piano della prassi – che in sé non intacca l’affermazione di principio; del resto come si può essere sicuri della fondatezza dell’accusa prescindendo dal giudizio? – e andare incontro a obiezioni di pari spessore, prima fra tutte che – dati alla mano – l’estinzione del reato per intervenuto decorso del tempo necessario a prescrivere si manifesta nel 70 per cento dei casi nella fase delle indagini preliminari. Ossia quando l’accertamento processuale deve ancora cominciare e l’unica attività svolta è quella della parte che accusa.

Ancora, si può osservare che la prescrizione è rinunciabile, quindi se un imputato è certo della propria innocenza può decidere che il processo a suo carico vada avanti. Ma quanti si possono permettere, in termini economici, emotivi e di salute, una cosa del genere? Chi, di fronte all’alternativa tra liberarsi dall’oggi al domani di una situazione invalidante (basti pensare all’obbligo di dichiarare, se richiesto, di essere sottoposti a procedimento penale) oppure mantenerla per anni, in attesa di un esito comunque incerto, sia pure con le più basse probabilità di soccombenza, vuole e può scegliere la prima via? Solo chi riveste una posizione importante e di rilevanza pubblica, per cui può essere necessario che esca dalla vicenda giudiziaria nel modo più pulito, e ha risorse finanziarie adeguate.

Sotto questo profilo, semmai, può valere l’asserto di Biondani secondo il quale la giustizia è per ricchi e potenti. Resta il fatto che l’autore è tranchant e prescinde dalla casistica: la prescrizione genera impunità. Punto. La questione, è evidente, è culturale. Oggi si tende a presumere la colpevolezza. Per invertire la deriva è necessario ripartire dai fondamentali. Sfatare, prima di tutto ed in modo deciso, i falsi miti che esprimono e sui quali si fonda la concezione colpevolista del processo penale. A cominciare da questo: un reato prescritto è un reato prescritto. Non un colpevole che l’ha scampata o un innocente insoddisfatto.


di Giovanni Pagliarulo