Fine Qe: a gennaio i nodi vengono al pettine

Come ampiamente riportato da tutte le principali agenzie di stampa, la Banca centrale europea, per bocca del suo attuale presidente Mario Draghi, ha annunciato che alla fine dell’anno cesserà il cosiddetto Quantitative easing; ossia l’acquisto da parte della stessa Bce di consistenti quote di titoli di Stato e di altro tipo dalle banche appartenenti ai Paesi della zona euro. La notizia era ampiamente attesa dagli operatori finanziari, anche se in una forma più interlocutoria rispetto ai tempi di attuazione. Tuttavia, l’annuncio di mantenere gli attuali tassi d’interesse bloccati almeno fino all’estate del 2019 ha contribuito a tacitare, almeno per il momento, le ansie dei mercati continentali, consentendo alle principale piazze finanziare di chiudere la giornata in grande spolvero.

Tuttavia con la fine del Qe i nodi italiani rischiano di venire molto velocemente al pettine, come si suol dire. Chiudendosi il provvidenziale ombrello aperto dalla Bce sul nostro colossale debito sovrano, che in estrema sintesi ci ha regalato del tempo prezioso malamente sprecato, i principali paradossi della politica italiana verranno inesorabilmente alla luce. In primis, di fronte all’inesorabile prospettiva di un drastico aumento del servizio sul debito, tenuto artificialmente basso dalla strategia orchestrata dalla Bce, i sempre più confusi cittadini-elettori toccheranno con mano l’insensatezza, la scarsa lungimiranza di chi ha tenuto le redini del Paese, mi riferisco in modo particolare a Matteo Renzi, promettendo miracoli irrealizzabili e, nel contempo, gettando gran parte del dividendo Draghi – cioè i tanti miliardi risparmiati con i tassi ai minimi – nel pozzo senza fondo della improduttiva spesa corrente. Una mossa concepita per accrescere il proprio consenso ma che, come hanno dimostrato le elezioni del 4 marzo, ha determinato il trionfo delle forze cosiddette populiste. Ma qui veniamo al secondo e ancor più grave paradosso.

Tali forze politiche, del tutto incuranti della natura transitoria del Qe, che ha rappresentato per l’Italia il principale fattore di stabilità economica e finanziaria, hanno vinto le elezioni su una linea di deficit-spending incommensurabilmente più spinta – dunque tale da mandarci a sfracellare contro un muro di cemento armato – rispetto a quella realizzata da Renzi. Una linea folle la quale, se applicata anche solo in parte, renderebbe insostenibile la gestione del nostro debito sovrano. Tant’è che l’attuale crescita del tanto bistrattato spread sui titoli italiani non dipende dal solito destino cinico e baro che si accanisce su di noi, bensì dall’accresciuto rischio, percepito da chi ci presta i quattrini, di insolvenza insito in un programma-contratto che prevede circa 120 miliardi di ulteriori impieghi con qualche spicciolo messo a copertura.

Per dirla in termini ancor più sintetici: con l’occasione offerta dal Qe abbiamo perso la grande opportunità di realizzare alcune fondamentali riforme strutturali, tra cui una consistente riduzione e riqualificazione della spesa pubblica e l’avvio di importanti investimenti infrastrutturali, mandando poi alla guida del Paese una strana alleanza politica che, almeno a chiacchiere, considera un fastidioso optional qualunque forma di disciplina di bilancio.

Ebbene, se tanto mi dà tanto, quando l’Italietta sovranista verrà definitivamente lasciata “libera” di operare nel mare magnum del mercato dei titoli di Stato, gestendo le proprie aste senza l’ingombrante schermo degli eurocrati di Francoforte, forse in parecchi cominceranno a capire che nessun governo delle cicale, seppur sostenuto da maggioranze schiaccianti, potrà mai ottenere prestiti a buon mercato, a meno di non stamparsi in proprio le banconote del monopoli e gettarle dagli elicotteri al popolo affamato. Ma questa è tutta un’altra storia.

                               

Aggiornato il 18 giugno 2018 alle ore 11:55