Il settimanale “l’Espresso” scomoda lo scrittore Elio Vittorini dal quale mutua il titolo del suo romanzo: “Uomini e no” per imbastire la copertina del numero attualmente in edicola. Sopra, due foto affiancate: quella del sindacalista di origine ivoriana, Aboubakar Soumahoro, che in Calabria si batte per i diritti dei braccianti extracomunitari vittime del caporalato delle campagne e il faccione truce del neo-ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Sotto, il titolo “Uomini e no” che rimanda in modo inequivoco a una dicotomia ontologico-razziale: la stirpe dei buoni che predica il Bene contro la stirpe dei cattivi che pratica il Male. Un astuto meccanismo di costruzione editoriale che proietta l’edizione settimanale verso l’obiettivo per il quale è stata pensata: un referendum che chiama l’opinione pubblica a decidere da che parte stare. Con l’umanità migliore, la solidarietà, la compassione, i buoni sentimenti, la contaminazione delle culture, il progresso, il mondo senza barriere o con Salvini? Come a dire: se avete lo stomaco di schierarvi con l’“aguzzino” fatti vostri; noi, i buoni, restiamo sul versante giusto della Storia. E della Morale.

A memoria, non ricordiamo ci sia stato mai un oppressore che abbia ammesso di essere in errore, mentre le biblioteche pullulano di biografie di tiranni che hanno convintamente ritenuto di stare nel giusto, al pari di quelli de “l’Espresso”. I peggiori crimini dell’umanità sono stati perpetrati al grido di: “Dio lo vuole”, oppure: “Dio è con noi”. Ma non è questo il tema odierno. Della faziosità razziale di una certa sinistra multiculturalista, annidata nelle redazioni dei media radical-chic, ne abbiamo piena contezza. Ciò che preoccupa è l’insensata decisione presa dal settimanale-fornitore ufficiale d’idee alla sinistra di trascinare il Paese in una versione riveduta e aggiornata di guerra civile. Non piacciono le iniziative del ministro dell’Interno? È sacrosanto diritto della libera informazione criticarle. Ma puntare il dito contro la persona identificandola con la rappresentazione del male equivale a fomentare l’odio. Significa offrire una sponda intellettuale a chi vorrebbe buttarla in caciara. È roba da “cattivi maestri” di sessantottina memoria.

Matteo Salvini rappresentato alla stregua di un mostro, del gatto mammone dei nostri peggiori incubi infantili, giustificherebbe “moralmente” chi sui social network, e non solo, gli dà dell’assassino, del delinquente o, peggio, del torturatore e del fascista. E come una certa propaganda estremista insegna: “L’unico fascista buono è un fascista morto”. Con tale improvvida iniziativa a cosa mira il gruppo de l’Espresso, oltre che a vendere qualche copia in più? Forse a benedire con l’imprimatur etico/razziale qualsiasi iniziativa volta a colpire il campione dei subumani? Matteo Salvini come i nazisti del libro di Vittorini, da uccidere in qualunque modo e con qualsiasi mezzo? Tuttavia, anche l’autore di “Uomini e no” qualche dubbio sulla correttezza etica dell’assioma “il fine giustifica i mezzi” se lo pose. Dubbi che evidentemente non hanno attraverso le menti, avvelenate dall’odio, della sinistra giustizialista e forcaiola. Dalla sincope da perdita di egemonia patita con l’avvento sulla scena, nel 1994, di Silvio Berlusconi, “l’armata del Bene” non ha mai derogato al principio che le vite individuali non contano, vale solo la causa. Famiglie distrutte dal marchio dell’infamia, vite spezzate dalle ingiuste accuse, carriere bruciate, storie imprenditoriali spazzate via, niente che sia sacrificato sull’altare del sommo bene morale ha rilievo.

Oggi si prepara una nuova crociata: mettere una pezza sull’inconsistenza politica e ideale del pensiero multiculturalista. L’esercito del Bene, chiamato a raccolta, si predispone a puntare il bersaglio: la cattiveria del nemico Salvini che non vuole gli immigrati in Italia. In tale chiave prospettica ogni mezzo di lotta diventerebbe lecito perché moralmente giustificato dal fine che si propone di conseguire. Si tratta di una logica assurda, ma non certo nuova. L’auspicio, del tutto campato in aria, è che questi potenziali mandanti dell’odio non incrocino la follia degli utili idioti. Il rischio è il prodursi di un cortocircuito tra quella che in apparenza vorrebbe essere una provocazione intellettuale e il desiderio dell’invasato di passare all’azione contro il nemico ontologico. Se fossimo nei panni del capo della polizia di Stato, dopo l’uscita de “l’Espresso”, rafforzeremmo le misure di protezione del titolare del Viminale perché ci sono molti modi per armare la mano dell’esaltato di turno. E la forzatura di chiedere alla gente di schierarsi sulla linea di faglia che divide il Bene dal Male è una di quelle. Comunque, la presa di coscienza sollecitata da l’Espresso non regge. Il fatto è che l’alternativa proposta è fallace.

A ben vedere,  Salvini e Soumahoro non sono paradigmi di mondi contrapposti ma le facce della stessa medaglia della legalità. Ci permettiamo di emendare il quesito prospettando una più attuale contrapposizione tra la voglia di un popolo di riappropriarsi del proprio destino e le mire occulte di una certa finanza transfrontaliera che sfrutta i media di cui detiene il controllo per esercitare indebite pressioni sulle istituzioni statuali e sulla società civile che prende di mira. Per rappresentare il campo del riscatto identitario si poterebbe lasciare la foto di Salvini. Sulla seconda immagine-copertina, invece, consiglieremmo a quelli de l’Espresso di frugare nell’album di famiglia perché di foto di personaggi che potrebbero fare al caso ne hanno a bizzeffe. E una in particolare, che è appesa alla parete di casa.

Aggiornato il 19 giugno 2018 alle ore 11:37