Lega-M5S: chi si somiglia si piglia

Sarà pure un abusarne, ma i proverbi spesso servono. Per dare un qualcosa più di un’idea. Una sintesi. Per di più politica. Non vi è più dubbio alcuno che l’attuale alleanza di governo derivi da una sorta di confusione mental-politica dei due partiti oggi all’opposizione, et pour cause, si vorrebbe aggiungere. Ma tant’è.

Il fatto, non meno dubbio, è che sia per la Lega che per il Movimento 5 Stelle il termine di partiti d’opposizione sia stato una sorta di valvola di sfogo, prima ancora che di governo, che ha a sua volta obnubilato i non pochi osservatori, in primis Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, entrambi trascinati in un’orbita (politica) dalla quale sono stati poi espulsi. E il detto allora che va per la maggiore, “attenti a quei due”, è stato regolarmente messo sotto i piedi senza nemmeno leggere con un minimo di attenzione il responso del 4 marzo. Un risultato che anche a una primissima occhiata, ancorché superficiale, denunciava una clamorosa situazione: la spaccatura del Paese con un Nord della Lega e un Sud di Beppe Grillo.

Una realtà per dir così storica che, se da un lato si è come stabilizzata nell’incontro-alleanza-governo del duo di cui sopra, dall’altro non può che comportare un divenire, un ulteriore movimento, un qualcosa di nuovo rispetto soprattutto al cosiddetto nuovo che avanza e che rischia di diventare “avanzato”.

Si tratta in altri termini di un processo in fieri nel senso e nella misura in cui uno dei due partiti vincitori è percepito bensì come portatore delle istanze meridionali ma, a quanto pare, non come protagonista di questo mandato, non un propositore, un facitore – come si addice a un partito premiato e dunque quasi costretto a interpretare in fatti di governo la forza propulsiva del Sud in crisi – ma un ripetitore di slogan elettorali, di comunicazioni tramite Twitter e Facebook rimanendo nell’area comoda della sloganista computerizzata piuttosto che calarsi nella realtà pura e dura di questi tempi, tanto più se si occupano posti di governo, a cominciare da un Presidente del Consiglio quasi preso per mano quotidianamente dai suoi due angeli custodi: Luigi Di Maio e, soprattutto, Matteo Salvini.

Certo, chi si somiglia si piglia, come si diceva all’inizio ma non è chi non veda come in una settimana di governo chi ha preso in pugno le carte e le gioca alla grande (per ora, s’intende) è quel Matteo Salvini che ha fatto della questione migranti un oggetto e un soggetto su cui misurare non soltanto le proprie capacità di governo ma quelle istintuali, col pugno chiuso, con il passo sicuro e veloce e spesso travolgente i timidi approcci di un Di Maio ormai relegato a occuparsi dei rider tramite, soprattutto, il fascino di Twitter e poco più.

Il punto è dunque che, pur somigliandosi, Lega e M5S divergono, più che sui fatti di governo (peraltro assai scarsi) sulla leadership in un momento in un certo senso storico nel quale contano le reazioni dei rispettivi elettorati che, nel caso di un Salvini imbattibile comunicativamente sul tema dei migranti, lo stanno proponendo come leader di uno schieramento più vasto, basti notare che chi era più di destra dei votanti grillini si sta spostando su Salvini senza dimenticare, peraltro, che la politica sull’immigrazione della Lega piace a molti elettori del Partito Democratico. E non solo, ovviamente.

Intendiamoci: il vero banco di prova della tenuta dell’attuale alleanza e del governo Lega-M5S sarà la prossima legge di bilancio ed è fin troppo facile prevederne le difficoltà, in modo particolare per Di Maio e soci, ma anche per lo stesso Salvini giacché il passaggio dalle promesse alle realizzazioni, dagli slogan alle leggi, insomma il passaggio dai giuramenti a proposito di riduzione delle tasse, riforma Fornero, precarietà, pensioni, Jobs act ai fatti concreti, non sarà, come si dice, una passeggiata.

Aggiornato il 25 giugno 2018 alle ore 13:07