Una sentenza a orologeria sotto la poltrona di Salvini

Siamo alle solite. Appena un politico di destra tira fuori la testa dal sacco, puntuale compare la mannaia della giustizia a orologeria a staccargliela. Per anni è stato Silvio Berlusconi il bersaglio preferito dal braccio armato del giustizialismo. Oggi tocca a Matteo Salvini subire il medesimo trattamento. La Lega conquista consensi? Da qualche parte, non si capisce bene quale (o forse sì), arriva l’ordine di scuderia: fermarla con qualsiasi mezzo. E lo strumento più collaudato per il lavoro sporco è sempre lo stesso: una sentenza giudiziaria. Questa volta il siluro arriva dalla Suprema Corte di Cassazione. I 49 milioni di euro che l’accusa nel processo contro Umberto Bossi, suo figlio Renzo e l’ex tesoriere Francesco Belsito, condannati in primo grado per il reato di truffa ai danni dello Stato, vorrebbe recuperare sono i denari dei rimborsi elettorali ottenuti dalla Lega nel periodo 2008-2010. Per i magistrati sarebbero frutto dell’attività illecita posta in essere dagli imputati.

Dopo un primo atto di sequestro che ha consentito di bloccare 1 milione 651mila euro presenti sui conti correnti del partito al momento dell’intervento della Guardia di finanza, il Tribunale del Riesame, adito dai legali della difesa, aveva negato alla Procura genovese di procedere oltre estendendo l’azione cautelare alle somme che sarebbero affluite in tempi successivi al primo sequestro alle casse della Lega a qualsiasi ragione e titolo. La disputa che è approdata in Cassazione lo scorso 12 aprile ha accolto il ricorso presentato dalla Procura genovese contro la decisione dei colleghi del Tribunale del Riesame. Oggi se ne conosce la motivazione. Per i supremi giudici le Fiamme gialle possono procedere al sequestro di tutte le somme “depositande” fino al recupero dei 49 milioni stimati come proventi derivati da comportamenti illeciti.

In concreto, il partito nel suo insieme viene ritenuto responsabile dell’operato del suo rappresentante legale e degli amministratori, in carica all’epoca dei fatti contestati. Da qui la disparità abnorme tra l’ammontare dell’eventuale truffa (poche centinaia di migliaia di euro) addebitata agli imputati nel processo penale a loro carico (siamo ancora alla conclusione del primo grado di giudizio) e la massa finanziaria obiettivo del sequestro conservativo. Pur non discutendo la correttezza formale della decisione, qualche dubbio sorge sull’orientamento della Suprema Corte che, in materia, resta alquanto ondivago.

Come ha osservato Maurizio Belpietro su “La Verità”, i supremi giudici non l’hanno pensata sempre così. Nel caso analogo della “Margherita” guidata da Francesco Rutelli, il tesoriere Luigi Lusi, riconosciuto colpevole di aver sottratto fondi al partito per 25 milioni di euro, è stato condannato e gli sono stati confiscati i beni personali, mentre nulla è stato contestato alla forza politica la quale, al contrario, è stata ritenuta vittima e non complice dell’operato illecito del suo tesoriere. La Corte di Cassazione, nella circostanza, stabilì che i denari recuperati mediante le azioni di confisca dovessero essere restituiti al loro legittimo proprietario, la “Margherita”, e non all’Erario. Ferme le sottili ragioni di diritto, è tale la disparità di trattamento che avvalora il sospetto di un uso improprio della giustizia. Stiamo alle conseguenze pratiche. Con la sua decisione la Suprema Corte autorizza la Guardia di finanza a sequestrare denari alla Lega ovunque se ne abbia traccia. In ipotesi, potrebbe accadere che le Fiamme gialle si presentino a ogni banchetto allestito in piazza dai leghisti per portargli via la cassetta delle offerte.

Si fa un gran parlare, a sproposito, di un ritorno agli anni bui dei totalitarismi, ma quand’è che, in democrazia, si sono viste persone in divisa e armi in pugno interrompere libere manifestazioni d’espressione del pensiero politico per eseguire provvedimenti dell’autorità giudiziaria? Se ciò non avverrà sarà soltanto merito del buon senso che guida l’operato dei vertici della Finanza. Ma ciò non manda assolti coloro che hanno pensato di risolvere il problema della presenza scomoda della Lega al Governo del Paese con l’arma giudiziaria. Il linguaggio apparentemente asettico della sentenza ha il retrogusto amaro dello strumento persecutorio. È quell’“ovunque e presso chiunque” posto a sostegno dell’attività di confisca del patrimonio inseguito dalla Procura genovese che rende politicamente pregiudizievole la pronuncia della massima corte.

Poi, a condire di disgusto l’intera faccenda intervengono i commenti dei “cacicchi” del Partito Democratico i quali, non potendo continuare a fornire cattivi esempi, si prodigano in buoni consigli. Quando parlano Matteo Renzi e compagni la prima cosa che viene da pensare è: il bue che dice cornuto all’asino. Sono proprio incorreggibili. Non ce la fanno a rendersi credibili agli occhi dell’opinione pubblica con proposte politiche accettabili e allora puntano sull’aiutino della giustizia a orologeria per fare fuori gli avversari e rimettersi in carreggiata. Stavolta cascano male. Il “Capitano” non si piega al ricatto e rilancia. “Quei 49 milioni di euro non ci sono, posso fare una colletta, ma è un processo politico che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto”.

Lui non c’entra e la sua Lega 2.0 non ha niente a che fare con la fine da basso impero toccata al suo fondatore e ispiratore. Se qualcuno ha fatto conto che il leader leghista, messo sotto schiaffo dalla magistratura, si risolva a calare la cresta sbaglia di grosso. Salvini punta a recuperare danari utili a finanziare la sua causa querelando e chiedendo risarcimenti a tutti coloro oseranno associarlo alle ruberie contestate. Non si rifarà dei 49 milioni che, tra l’altro, non esistono, ma un paio di campagne elettorali se le potrà consentire. E con larghezza di mezzi.

Aggiornato il 05 luglio 2018 alle ore 11:57