Il Ceta della discordia

Sarà che siamo sotto l’effetto dei Mondiali di calcio appena conclusi, ma non è possibile che ogni disputa si trasformi in battaglia tra opposte tifoserie. Non possiamo essere sempre in curva, come allo stadio. Occorre buonsenso.

Oggi, l’ultima frontiera delle polemiche è la questione del Ceta, il Trattato di libero scambio tra l’Unione europea e il Canada. Entrato in vigore in via provvisoria il 21 settembre 2017, per diventare efficace in via definitiva attende di essere ratificato dai Parlamenti nazionali dei Paesi Ue. Il Governo italiano, per bocca del suo vice-premier nonché ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, ha annunciato la sua contrarietà alla ratifica del Trattato. Visto che anche la Lega è sulle medesime posizioni è presumibile che il Ceta in Italia non passerà. Non sappiamo se ciò sia un bene o un male per il sistema produttivo italiano, di sicuro è un affare complicato. Vi sono argomenti che deporrebbero a favore del no, ma altrettanti che consiglierebbero una scelta opposta. A favore dei “pro” c’è che la bilancia commerciale, già oggi in attivo, avrebbe ulteriori benefici dall’eliminazione dei dazi alle merci esportate verso il grande Stato del Nord America. Nei primi 11 mesi del 2017 le forniture italiane verso il Canada, ammontano a circa 8 miliardi di dollari canadesi su base annua, contro un import di 2,3 miliardi di dollari canadesi, registrato nel 2016. Secondo i dati dell’Istituto Commercio Estero (Ice) l’Italia è il sesto Paese di destinazione tra i membri Ue e il 12esimo a livello mondiale dell’export canadese. Anche il comparto dell’agroalimentare è in positivo. Nel 2016 l’export del settore è stato il 21,7 per cento delle merci esportate in Canada (767 milioni di dollari). Tali dati farebbero propendere per un’implementazione del Ceta. E non viceversa.

Il Trattato potrebbe dare una mano a stimolare il fronte degli investimenti da e verso il Canada. Finora i numeri non sono stati confortanti. I canadesi sono al 37esimo posto della classifica degli investitori in Italia mentre il nostro sistema produttivo, principalmente dei settori dell’energia, dell’agroalimentare, dell’automotive, dell’Ict e del manifatturiero, è al 17esimo posto della graduatoria degli investitori esteri in Canada. L’abbattimento delle soglie minime e massime di rendimento, la riconfigurazione di un apparato normativo più stabile e trasparente, la libera circolazione di capitali e manodopera, l’introduzione del “public procurement”, che consente l’apertura alle imprese europee dei bandi di gare d’appalto emanati dall’apparato pubblico canadese a tutti i livelli istituzionali, sono i vantaggi che il Ceta offre alla sponda europea e che potrebbero marcare il salto di qualità rispetto alle chiusure del passato. 

Per contro c’è il timore fondato degli operatori del comparto agricolo e agroalimentare che il Trattato sia il colpo mortale inferto al “Made in Italy”, mai adeguatamente tutelato dalle politiche dell’Unione europea. I produttori italiani, che fanno agricoltura di qualità, sono allo stremo delle forze perché non riescono a reggere la concorrenza di chi non rispetta i parametri qualitativi della produzione che, invece, essi sono tenuti a rispettare in forza di normative nazionali molto stringenti sul fronte della sicurezza alimentare e del rispetto dei contratti di lavoro della manodopera subordinata. Secondo quanto denuncia la Coldiretti, il Ceta legittimerebbe la pirateria agroalimentare che da tempo ha preso di mira i marchi italiani. Non solo il falso made in Italy non verrebbe sconfitto sul mercato canadese ma, peggio, grazie al libero scambio andrebbero di diritto sugli scaffali della distribuzione europea le ingannevoli denominazioni che imitano i prodotti tipici italiani. Vi è un problema di obbligatorietà della tracciabilità della filiera agroalimentare da riportare in etichetta e sul quale l’Unione europea continua a fare orecchie da mercante.

C’è poi una questione di fondo che non può essere taciuta. È il rischio che il Ceta, pur limitato nella portata degli eventuali effetti negativi, costituisca un pericoloso precedente. Se si apre la porta ai canadesi come ci si potrà opporre a tutti gli altri che chiedono uguale trattamento? Come si potrà dire di no a Donald Trump che in nome e per conto degli agricoltori e dei produttori di carne statunitensi ha preso a sparare a palle incatenate sull’Unione europea? Si dirà: ma è stato proprio Trump a far naufragare il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), il Trattato di libero scambio Usa-Ue. È vero, ma soltanto per andare a una negoziazione bilaterale con i singoli Paesi dell’Unione a lui più conveniente. Sarà un gioco da ragazzi per “The Donald” fare la voce grossa evocando il buonsenso della massaia. “Perché il grano candese vi sta bene e quello dei nostri agricoltori della fascia latitudinale che dall'Ohio si allunga fino al Nebraska no?”. È ciò che il nostro premier Giuseppe Conte potrebbe sentirsi chiedere durante la visita programmata a Washington per fine luglio. Poter rispondere: “Infatti, al grano canadese non abbiamo aperto le porte” potrebbe essere un timido mezzo di difesa per fronteggiare la pressione americana che sarà fortissima, per come si sta comportando Trump con i suoi interlocutori in tutto il mondo.

La verità è che se il no alla ratifica del Ceta serve ad avviare una riflessione ad ampio spettro sul futuro produttivo del Paese ben venga, anche se comporterà dei prezzi da pagare sul fronte dell’export. Perché non è importante qualche no detto di troppo ma la dimostrazione di avere le idee chiare sul dove condurre il Paese nel prossimo futuro. Allora la domanda che conta è: post-grillini e leghisti queste idee chiare ce l’hanno o no?

Aggiornato il 18 luglio 2018 alle ore 11:32