“Decreto dignità”, le opposizioni al bar

Domani approda in Aula a Montecitorio il “Decreto dignità” per la conversione in Legge. Non è un evento ordinario ma il primo atto di rilievo del Governo giallo-blu che affronta l’esame delle Camere. È un test per la tenuta della maggioranza. Ma non solo. È anche la verifica dell’esistenza in vita delle opposizioni. Nei quasi sessanta giorni del Governo leghista-pentastellato abbiamo udito moltissimo le voci di Luigi Di Maio e di Matteo Salvini mentre quella dei “democratici” è parsa poco più di un balbettio, quando non un rantolo.

Riguardo a Forza Italia, meglio stendere un velo pietoso dal momento che non abbiamo ancora capito (ma sarà un nostro limite di comprensione) cosa vorrà fare da grande il partito berlusconiano. Al momento ciò che la realtà restituisce è una verità scomoda: la sola opposizione al progetto governativo sulla revisione di alcune norme che regolano i contratti di lavoro a tempo determinato e la vita delle aziende è venuta da Confindustria. È noto che da viale dell’Astronomia si tenda a fare i catastrofisti ogni qualvolta la politica provi a legare le mani agli imprenditori. Perciò gli “alti lai” del presidente Vincenzo Boccia non allarmano il Governo più del necessario.

Eppure, un’adeguata azione parlamentare delle opposizioni, tramite la battaglia degli emendamenti, ne potrebbe smussare gli aspetti più spigolosi. Come, ad esempio, la questione della reintroduzione dei voucher, almeno per quei settori produttivi (agricoltura e turismo) che li invocano a gran voce. Non sarebbe cosa impossibile migliorare il testo normativo originario. In fondo, si tratta di attivare uno dei meccanismi essenziali del processo democratico di composizione delle leggi all’interno dell’organo costituzionalmente deputato a farlo. Per inciso, parliamo di quel medesimo organismo, il Parlamento, che nella visione lunga di Davide Casaleggio sarebbe destinato a scomparire nel volgere di un paio di lustri. Per il momento, visto che c’è, sarebbe salutare che funzionasse a pieno regime. Perché il Parlamento svolga al meglio la sua funzione è indispensabile che a bilanciare l’azione della maggioranza vi sia un’opposizione in grado di fare il suo mestiere. Da qui la domanda delle cento pistole: ma le opposizioni ci sono?

Secondo quanto scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”, tanto il Partito Democratico quanto Forza Italia sarebbero state desertificate dai due partiti oggi al Governo del Paese. Lega e Cinque Stelle avrebbero rispettivamente captato i bacini elettorali della destra e della sinistra lasciando i suoi tradizionali riferimenti partitici “senza radici, svuotandoli dei loro elettorati”. Ciò spiegherebbe lo stato confusionale in cui versa il Pd, ampiamente attestato dal capitombolo sull’emendamento al Decreto per la riduzione delle penali previste a compensazione del licenziamento senza giusta causa del lavoratore con contratto a tempo determinato, prima presentato dal Pd e ora in fase di ritiro per le proteste generatesi tra le fila degli stessi “dem”. Il direttore Polito, non vedendo alcun orizzonte per le attuali forze d’opposizione, invoca la venuta salvifica di un “qualcosa di nuovo” che “possa contrastare i vincitori delle elezioni senza il livore dei perdenti”. Non saremo certo noi a negare a Polito il diritto alla speranza. D’altro canto, l’aspettativa escatologica connessa al messianismo non è una prerogativa dell’ebraismo e del cristianesimo, ma appartiene in una qualche misura anche alla politica. Vorremmo avere la stessa granitica fede del vicedirettore del “Corsera” sull’inverarsi di un evento prodigioso. Ma non l’abbiamo. Più laicamente pensiamo che tocchi alle odierne opposizioni, nelle condizioni date, di provare a rigenerarsi cominciando da una rilettura veritiera dei bisogni delle persone e degli orientamenti della comunità che evidentemente non hanno compiuto a dovere, visti i risultati elettorali.

Le opposizioni, tutte, devono prendere atto di un’elementare verità: nessuna narrazione, per quanto suggestiva, può surrogare la realtà. Se palingenesi dovrà essere, essa dovrà svilupparsi all’interno dei rispettivi campi tradizionali della destra e della sinistra, per tornare a incrociare l’interesse dei rispettivi blocchi sociali di riferimento che, nel frattempo, sono emigrati verso altri lidi. Non sarà un nuovo messia a strappare il 60 per cento dei consensi che metterebbero insieme Lega e Cinque Stelle se si votasse domani. Non sarà il “tertium… datur” tra Salvini e Di Maio a rovesciare la frittata populista. Sarebbe fin troppo comodo affidarsi all’avvento del “Salvatore”, ma non è la soluzione giusta, benché desiderabile. Marxianamente la religione è l’oppio dei popoli. Anche predicare la nascita di “qualcosa di nuovo” dal nulla odierno cede alla tentazione di una bizzarra religione profana che miri a sopire le ansie dei delusi e a quietare le cattive coscienze dei colpevoli. Per quanto sia doloroso ammetterlo, il solo modo per sperare di mutare la direzione del vento è di ripartire dalle rovine lasciate in terra lo scorso 4 marzo. Toccherà a coloro che di quei crolli sono stati i maggiori responsabili mettersi a scavare, non a mani nude ma con le pale e i picconi dell’analisi e dell’autocritica. Sa un po’ di contrappasso dantesco, ma è così che deve andare. “Dem” e forzisti non ci sono abituati? Hanno avuto il desco assicurato e mani troppo curate per sacrificarle ai lavori pesanti? Vadano in pellegrinaggio ad Amatrice o ad Arquata del Tronto, lì di sicuro troveranno chi gli insegna a spalare fango, calcinacci e qualcos’altro. Se non diventeranno “uomini (e donne) nuovi” comunque un po’ di sudore male non gli farà.

Aggiornato il 24 luglio 2018 alle ore 12:14