Quel default dell’Italia che fa comodo ai tedeschi

Il default dell’Italia è ormai vicino e a poco serve sostenere che “le scelte bancariamente europeiste salveranno l’Italia”. Sono parole senza senso, accademia buonista solo momentaneamente soporifera. Il risveglio è una dura realtà: ovvero l’asse franco-tedesco che lavora a un default del debito pubblico italiano sullo stile argentino. La storia delle economie moderne (dal Congresso di Vienna del 1815 a oggi) ci insegna che il fallimento è possibile anche per un Paese medio-grande: prima delle metodiche fallimentari c’era l’invasione in armi di un territorio e il consequenziale sacco delle ricchezze. Il Congresso di Vienna apre la porta “buonista” della posizione “prefallimentare” (il quasi default) e perché tutti gli imperi centrali s’erano economicamente dissanguati per combattere le cosiddette “guerra napoleoniche”: in quella situazione storica si fortificano due metastasi, i Rothschild e i Rockefeller (tra loro imparentati), con cui le corone s’erano indebitate per pagare soldati, armi e relativi vettovagliamenti e logistica.

C’è una spia ineludibile che s’accende quando il default di una nazione è vicino, ed è l’impoverimento drammatico, generalizzato e irreversibile del Paese, senza salvagenti lavorativi per nessuno. Infatti in Italia non è più possibile creare lavoro o far lavorare la gente in situazioni normali (non schiavistiche, con garanzie). Altro campanello d’allarme è che per nessun problema italiano l’asse franco-tedesco invoca la “coesione europea”. Anzi, ravvede nei problemi migratori, nella disoccupazione e nelle sofferenze bancarie una strada per accelerare il fallimento (il default) dell’Italia: e perché oggi il sacco di un Paese si fa nella corte europea che gestirà il processo fallimentare. L’uomo della strada percepisce tutto questo (anche se in modo ancora poco definito) ed ecco che l’appeal dell’Unione europea ha ormai valori prossimi allo zero.

Quindi ha drammaticamente ragione il ministro degli Affari europei Paolo Savona quando rilancia l’argomento, dicendo che il piano d’uscita potrebbe essere necessario per il frantumarsi dell’Unione europea. Ue già frantumata sul nascere, perché quel senso di responsabilità europeista (i sacrifici per l’Europea di prodiana memoria) significava che milioni di poveri schiavi avrebbero dovuto trasportare i mattoni per edificare la casa comune europea senza ricavarne nulla: anzi pagando i costi dell’opificio Ue con tasse, disoccupazione, povertà diffusa e generalizzata, erosione dei risparmi e rischio che il lupo cattivo pignori loro le rispettive casette.

Non siamo soli. Anche il politologo Aldo Giannuli sul Sussidiario.net spiega il default italiano a Federico Ferraù: “Tra pochi mesi inizierà un percorso che ci porterà molto vicini al rischio di default – dice Giannuli – Cesserà il Quantitative easing e il costo del denaro aumenterà. La Bce ha comprato 400 miliardi di titoli di Stato facendoci pagare un interesse molto modesto. Ammesso e non concesso che rinnovi gli acquisti, non lo farà più ai tassi di prima, ma a tassi reali, che saranno dell’1,5 per cento in più. Attualmente gli oneri sul debito ci costano 60 miliardi l’anno, un aumento dei tassi vuol dire sommare altri 6-7 miliardi. Con una manovra si può tamponare, ma nel giro di 2-3 anni diventa difficile rifinanziare il debito. I nostri titoli di Stato – chiosa Giannuli – si avvicinano sempre più a essere considerati ‘junk bond’, titoli spazzatura”.

Dopo il caso Carige, le banche tedesche sono pronte a chiedere misure drastiche contro gli istituti di credito italiani: l’asse franco-tedesco ha meno di un anno per avviare la procedura fallimentare dell’Italia. Procedura che, secondo gli esperti, non potrebbe più avvenire se cambiasse il quadro politico a Strasburgo. E perché i cosiddetti populisti scardinerebbero l’antica regola Ue che vuole gli eletti in sudditanza dell’alta burocrazia tecnico-bancaria.

Aggiornato il 25 luglio 2018 alle ore 11:15