Ilva: la lunga notte di Taranto

venerdì 27 luglio 2018


Per chi è nato nel quartiere Tamburi di Taranto a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, non era certo una sorpresa vedere i tergicristalli delle auto lavare via dal parabrezza la polvere di minerale la mattina prima di partire con l’automobile mentre, armate di scopettone, le casalinghe facevano la stessa cosa sui balconi.

Questo per dire che l’inquinamento industriale a Taranto non è un fatto recente ma è direttamente connesso alla costruzione di uno stabilimento nato male – cioè a ridosso del centro abitato – agli inizi del 1960 per questioni di marchette fondiarie.

Così, per una questione puramente speculativa, negli anni sessanta si è deciso che un colosso della superficie complessiva di 15.450.000 metri quadri potesse convivere con un quartiere sfruttando una tecnologia (il ciclo integrale) ad alto impatto ambientale e con ritmi di produzione che nel 1970 si aggiravano intorno al 40 per cento della produzione totale nazionale di Italsider fino ad arrivare all’80 per cento nel 1980. Il risarcimento per il “disturbo”, a parere delle autorità dell’epoca, Taranto avrebbe dovuto riceverlo in occupazione tanto che negli anni Ottanta, tra indotto e lavoratori diretti, i posti di lavoro erano di circa 45mila unità.

Nel 1983 il settore dell’acciaio entra in crisi provocando la liquidazione di Italsider (che non ha mai brillato per una gestione oculata dell’equilibrio tra costi e ricavi) fino ad arrivare al 1995, anno in cui l’acciaieria di Taranto viene svenduta al gruppo Riva con una seconda marchetta.

Onestà intellettuale impone di constatare che da questa data la situazione all’interno e all’esterno dello stabilimento peggiora sensibilmente per un fatto intrinsecamente connesso alla mission che il gruppo Riva si era dato: produzione selvaggia e taglio di tutti i costi comprimibili (produzione triplicata, giro d’affari a circa 11.500 miliardi quadruplicato in pochi anni e personale quasi dimezzato).

Per questo motivo Ilva si trasforma in un far west: lavoratori riluttanti alla nuova filosofia aziendale confinati nella “Palazzina Laf” a non far nulla (il processo si concluderà con una condanna per mobbing) e produzione a rotta di collo (nel senso letterale) in spregio di qualsiasi norma di sicurezza, ambientale, penale e civile e manutenzione ridotta all’osso con conseguente peggioramento delle emissioni nocive e della sicurezza dei lavoratori che infatti iniziano ad avere incidenti gravi manco fossero cavallette. Per carità, Emilio Riva fu un grande produttore e un eccellente venditore di acciaio ma un cittadino quantomeno discutibile che ha trattato la città come fosse una colonia sottosviluppata da sfruttare come non ci fosse un domani. Il tutto “ungendo” gli stakeholder nazionali e locali alla ricerca di impunità.

Fino al 2012, anno in cui i magistrati di Taranto mettono il naso negli utili della Riva Fire comprendendo che i risultati da capogiro vengono realizzati grazie al mancato ammodernamento degli impianti che, alla luce degli anni e dell’obsolescenza, generano ingenti danni ambientali e sanitari. Nel luglio del 2012 Emilio Riva viene arrestato per disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari. A novembre il procuratore Franco Sebastio contesta al patron della ferriera di essere al vertice di un’associazione a delinquere di cui fanno parte anche i figli Fabio e Nicola. Un’organizzazione criminale che, secondo l’accusa, ha lavorato nell’ombra grazie alla complicità di politici locali e nazionali, sindacati compiacenti e silenziosi e una rete di informatori e simpatizzanti mobilitati perché l’Ilva fosse immune da provvedimenti legislativi che la costringessero a ridurre la produzione.

È l’inizio dell’ormai celebre processo “Ambiente Svenduto” e delle perizie epidemiologiche che le associazioni ambientaliste presentano in procura per dimostrare il disastro ambientale perpetrato ai danni della città. Gli impianti vengono sequestrati senza facoltà d’uso e dal quel momento è tutto un susseguirsi di decreti ad hoc per permettere che la produzione continui, di commissariamenti e di amministrazioni straordinarie finalizzate a porre in essere fantasiose opere di ambientalizzazione, riconversioni e corbellerie varie utili a promettere tutto a tutti: ai lavoratori di conservare il posto, ai cittadini di vivere in un luogo salubre, all’indotto di riscuotere i crediti, la chiusura a chi vuole la chiusura e la riconversione a chi non si rassegna ad abbandonare la vocazione industriale del territorio.

Si susseguono nove decreti salva Ilva in cinque anni e parallelamente, al fine di non incorrere in sanzioni europee per aiuti di Stato, viene avviato il lungo iter finalizzato alla alienazione degli impianti al miglior offerente (migliore in termini qualitativi e quantitativi). La pressione mediatica si fa fortissima e l’ondata ambientalista finisce con lo strattonare la politica a tal punto che, impaurita, dilata a dismisura l’attuazione delle prescrizioni in tema ambientale rifiutandosi per fatti concludenti di prendere una decisione sul futuro della stabilimento.

Siamo nel 2017 e le elezioni sono alle porte: da una parte c’è chi vuole millantare un presunto decisionismo ostentando come risultato l’aggiudicazione della gara a favore di ArcelorMittal (ai danni di AcciaItalia) e dall’altra c’è chi fa demagogia sulla chiusura. Vincono i qualunquisti i quali si trovano di fronte a un bubbone enorme: hanno da una parte la promessa di chiusura da mantenere e dall’altra l’aggiudicazione della gara da finalizzare. Ragion per cui li abbiamo visti in questi mesi annaspare con la lingua felpata dichiarando tutto e il suo contrario nella speranza di trovare una soluzione.

Una cosa è fare l’apologia della chiusura quando si è comodamente seduti all’opposizione mentre un’altra è mettere mano a uno degli stabilimenti più grandi al mondo da ministro con le implicazioni che una simile operazione comporta in termini di smantellamento, bonifica (interna ed esterna allo stabilimento), contraccolpi occupazionali, contraccolpi produttivi in un settore trainante e strategico come l’acciaio e tutta una serie di complesse problematiche che renderebbero l’Italia quasi completamente dipendente dalle importazioni anche su un altro settore merceologico così delicato.

Qui non si tratta di fare sterile attività di denuncia alla Milena Gabanelli, sculettare su un palco ruttando ovvietà alla Beppe Grillo o ammiccare a chi urla di più (in quel momento) per ampliare il consenso: qui si tratta di tenere il punto sulla chiusura assumendosene la responsabilità o puntare sulla produzione di acciaio senza fare pasticci alla Carlo Calenda pretendendo che il nuovo investitore faccia cose ben precise per il territorio e per l’azienda tra cui l’introduzione delle migliori tecnologie produttive in circolazione (al momento Finex e Corex parrebbero le migliori) rendendo veramente la produzione ecocompatibile senza pannicelli caldi come la copertura dei parchi minerari e simili accorgimenti “di nicchia”.

Luigi Di Maio ha scelto di non scegliere ed ha puntato sulle criticità riscontrate dall’Anac in merito alla gara di aggiudicazione di Ilva: invalidando il procedimento di gara per violazione dell’interesse pubblico e opacità nella gestione si manda sostanzialmente tutto a pallino dilatando a babbo morto i tempi per la risoluzione del problema. Anzitutto, se la gara fosse invalidata, si inizierebbe la lunga liturgia dei ricorsi e delle carte bollate e poi bisognerebbe ripetere la procedura non potendo attingere alla graduatoria precedente. La qual cosa sarebbe preoccupante perché la crisi è incancrenita da ormai parecchi anni, la situazione ambientale e produttiva è peggiorata durante questa gestione commissariale e l’azienda perde trenta milioni al mese. Lo stabilimento morirebbe da solo non potendo reggere ai tempi lunghi della codardia politica e decisionale. Spenti i riflettori cosa ne sarebbe di Taranto? Si trasformerebbe in una nuova Bagnoli? E poi? Cosa ne sarebbe della questione ambientale? Cosa ne sarebbe della questione sanitaria? Quale piano alternativo in ambito occupazionale? E come si ripenserebbe la strategia industriale del Paese soprattutto in un momento di incertezza internazionale e di dazi anche sull’acciaio?

Di Maio è a un incrocio pericoloso: potrebbe accettare le proposte migliorative che l’aggiudicatario ha fatto pervenire in queste ore scontentando tutto quel filone ambientalista che ormai gli ringhia contro, potrebbe dare in pasto alla folla la populistica chiusura dello stabilimento dovendo gestire l’ingestibile o potrebbe ricominciare la gara da capo scontentando tutti ma ritenendo così di guadagnare tempo. Probabilmente il nostro vicepremier ignora la gravità e la delicatezza del momento o probabilmente siamo noi a pretendere troppo da un ministro grillino.


di Vito Massimano