M5S-Lega: Governo o governicchio?

martedì 31 luglio 2018


Difficile non concordare col nostro direttore a proposito della trasformazione ideale-ideologico-politica in atto da noi, in virtù della presenza viva e operante (anche al Governo) della squadra pentastellata con a capo Beppe Grillo (e pure Luigi Di Maio); presenti, del resto, in varie istituzioni nazionali fra cui l’ente più ente di tutti che è la Rai, per non parlare degli altri.

Intendiamoci, chi vince in un sistema democratico e ha la maggioranza da solo o con alleati, passa inevitabilmente alla categoria ben nota negli Usa e pure da noi, che va sotto il nome di catch-all, ovverosia prendi-tutto. Nulla quaestio, si capisce, anche se, per quanto riguarda i grillini spinti, a sentirli da sempre, da una forte, inarrestabile carica morale, si preferisce glissare sulla prassi del potere esercitato da chi governa ed è ovviamente impegnato a occupare i cosiddetti posti di governo e di sottogoverno, altrimenti. Altrimenti ciccia, come si diceva una volta e si dice ancora. Ma siccome loro si proclamano da sempre i nuovi, nuovissimi e purissimi contro i vecchi, vecchissimi e corrottissimi, la cosiddetta presa d’atto dello stato delle cose rappresenta per loro una sorta di passaggio degno delle repubbliche di prima, una specie di salto nel vuoto che, peraltro, pur caricato di simbologie etiche e inappuntabilmente monde dal peccato originale della fame di potere, si sta già trasformando in un salto nei posti, negli enti di Stato, dove c’è il potere. Amen e così sia, per dirla aulicamente, ma la domanda che torna più frequente sui media più attenti comincia ad essere: quanto dureranno? Durerà il Governo? Durerà l’alleanza Di Maio-Salvini?

Qui vale la pena prendere nota di un’osservazione di Claudio Petruccioli, politico e giornalista che su “Italia Oggi” escludeva elezioni anticipiate nella primavera dell’anno prossimo vedendo nel governo una stabilità duratura sia perché i due “vice” sanno che Lega e Movimento 5 Stelle con nessun altro alleato avrebbero i margini che hanno adesso e che, se si dovesse tornare al voto, entrambi e i loro “movimenti” non potrebbero più fare pantomime e sceneggiate messe in atto dopo il 4 marzo per dare vita al loro governo.

Il punto vero riguarda dunque una coalizione di appena due mesi che, tuttavia, ha lanciato e rilanciato parole d’ordine più forti che alte riguardo le riforme impegnative da fare fra cui la flat tax e il reddito di cittadinanza manco fossero la famosa condicio sine qua non, tanto più che la liquidazione degli avversari, almeno da parte di Grillo, poggia su due pilastri fino ad ora redditizi di voti: la democrazia rappresentativa è finita con uno vale uno, la crisi non esiste e, semmai, è colpa di Bruxelles e quindi dell’Euro, con una sorta di ritorno, assieme a uno straconvinto Salvini, a quello che una volta si chiamava né più né meno che nazionalismo e oggi, in una versione più à la page, sovranismo. Ma tant’è.

Se dunque una maggioranza vuole durare, come legittimamente dicono e vogliono i suoi elettori che ne hanno mutuato gli slogan elettoralistici divenuti per automatismo oggetto di riforme pur mantenendo gli stessi toni sopra le righe – vedi il Di Maio alle prese con l’Ilva e, da innamorato del sistema assembleare post ’68, ci va in compagnia di una sessantina di partecipanti – il meno che si possa dire è che proprio lo stile dimaiano all’opera nelle Puglie è la spia se non la prova della non fattibilità concreta di ciò che si vorrebbe risanare e riformare, ma, semmai, renderlo oggetto di un’ampia, ampissima riunione nella quale, siccome uno vale uno, diventa impossibile tirare le somme e poi fare.

L’osservazione non vuole affatto essere di malaugurio anche se a guardare con attenzione i risultati di questi sessanta giorni ciò che traspare dall’attività di Palazzo Chigi e dei due dioscuri alle prese non soltanto con i propri dicasteri, peraltro impegnativi, è che ci troviamo di fronte a quello che nella deprecata Prima Repubblica veniva definito come governicchio con cui si intende(va) identificare non tanto o non soltanto una maggioranza non così unita e compatta, ma soprattutto un suo governo dai grandi annunci del cambiamento costretti tuttavia a fare i conti con la cosiddetta dura forza delle cose, cioè delle risorse. Vedi il caso delle due riforme promesse a spron battuto per significare uno strappo per cambiare “il vecchio che resiste al nuovo che avanza”, ovvero la flat tax e il reddito di cittadinanza; riforme per le quali non soltanto bisogna mettere insieme la Costituzione ma trovare le risorse ad hoc, peraltro pochine.

Intanto c’è chi come Salvini che vuole o vorrebbe una flat tax la più veloce possibile e approvabile in un battibaleno, solo che un tipo del genere di flat tax non si può fare, in base alla nostra Costituzione secondo la quale le imposte devono essere progressive per cui una possibile soluzione starebbe in una imposta del reddito piatta ma con agevolazioni fiscali progressive, il tutto però richiede un lavoro imponente di revisione del nostro sistema fiscale, per almeno cinque anni. E il reddito di cittadinanza reclamato tutti i giorni dai grillini? Sia in questo caso che nel primo, il pensiero e l’opera di un ministro competente come Giovanni Tria sono in attività, solo che anche questo reddito di cittadinanza (ciò che voleva Di Maio erano 11 milioni di redditi di cittadinanza) appartiene alle cosiddette tasse piatte

Con 780 euro a tutti e se ne deduce che sia quella flat tax che questo reddito eguale per tutti non solo compatibili perché le vieta la Costituzione. E allora? Si fa una commissione.


di Paolo Pillitteri