Verso un nuovo 18 aprile

lunedì 6 agosto 2018


Bisogna fare attenzione alle analogie formali, perché, al di là delle differenze anche grandi di contesto, significano sempre qualche cosa, quando le si interpretino correttamente. E qui mi riferisco al nostro secondo dopoguerra e alla situazione politica attuale. Al di là della pur enorme differenza di una disastrosa guerra appena perduta (adesso, caso mai, siamo preoccupati del futuro, non del passato) vi è però un punto in comune, oggi, col dopoguerra e cioè un rifiuto abbastanza generalizzato delle classi dirigenti e dei partiti che governavano in precedenza. Forza Italia e il Partito Democratico, che bene o male erano gli assi portanti dei due schieramenti che si alternavano alla guida dell’esecutivo, hanno visto un’enorme perdita di consenso elettorale che non pare proprio arrestarsi, quasi come se fossero stati esclusi dal novero delle forze protagoniste a livello di governo. Certamente non vi è la drammaticità di allora e nemmeno la fine di una dittatura personale, però lo spostamento di consensi è stato tale, da imporre, con la forza dei numeri, un governo dei “nuovi” (la Lega di Matteo Salvini è davvero diversa da quella di Umberto Bossi) contrapposto a tutti quelli precedenti, anche se i nuovi sono assai poco omogenei tra loro. E qui viene spontaneo il paragone con i governi del Cln, dove forze in effetti assolutamente non compatibili, erano obbligate a stare assieme dal rifiuto pregiudiziale di ogni alleanza con spezzoni del regime precedente, rifiuto condiviso da gran parte dell’elettorato, anche se vi erano, allora come oggi, corpose minoranze che restavano escluse.

La Democrazia cristiana e il Partito comunista, pur vincolati dall’accordo di governo, riuscirono però a rendere evidente che il loro rapporto non era solo dialettico, ma conflittuale, fino a porsi in modo chiaro come i naturali avversari nello scontro che si sarebbe inevitabilmente prodotto non appena l’obbligo di coalizione fosse venuto meno. E fu così. Lo scontro tra socialcomunisti e liberaldemocratici ebbe per protagonisti il Pci e la Dc, fino al punto di prendersi quasi tutta la scena anche a danno degli alleati e di riassorbire elettoralmente anche molti degli esclusi (almeno un quinto dei voti democristiani nel 1948 fu in effetti dovuto a elettori monarchici e missini). Il movimento di popolo tagliò in gran parte fuori anche le guide tradizionali. Il Re e poi il suo Luogotenente Umberto, nel breve periodo 1944-46 in cui restarono al vertice dello Stato (tra dopoguerra e antepace, avrebbe detto Guareschi) poterono forse orientare la scelta di qualche tecnico prefascista, ma non condizionare realmente il governo, perché alla fin fine erano rappresentanti di equilibri politico-istituzionali ormai finiti, proprio come oggi Mattarella che, essendo il nostro un regime democratico parlamentare, può condizionare, ma non impedire o bloccare un governo con maggioranza nelle camere.

Lo stesso pontefice romano, che pure con Pio XII fu probabilmente determinante per la vittoria a valanga della Dc, fu in un certo senso superato da De Gasperi e dal cattolicesimo militante in politica, come si vide dal fallimento dell’operazione Sturzo o dalla sostanziale poca incidenza nel partito dei comitati civici di Gedda. Il fatto è che Eugenio Pacelli era il Papa eletto per difendere la chiesa in un’epoca che sembrava preludere ad un dominazione nazista, in uno scenario diverso, così come oggi Bergoglio, divenuto papa quando sembrava inevitabile un accordo col mondo mussulmano, le teologie sudamericane della liberazione e il politically correct anglosassone, comincia a trovarsi spiazzato dalla reazione opposta (e in tutto l’occidente) della gente, a cominciare dai fedeli, che non sono composti solo da una minoranza papista in ogni caso, ma da uomini e donne che vivono nella società e che paiono profondamente turbati da una chiesa che sembra allontanarsi da loro.

La sinistra tradizionale inoltre, pur con una tenuta elettorale maggiore di Forza Italia, paga però in più uno scotto antico, quello della reazione viscerale dei massimalisti contro i riformisti, che ieri attaccava Turati, Saragat, Craxi ed oggi Renzi, si da rendere la linea del Pd ondivaga ed indecifrabile, divisa tra la modernità efficientista dei Calenda e gli archeologici allarmi antifascisti dei Fiano. La Lega e i Cinque Stelle stanno insomma occupando tutto lo spazio politico, recuperando, anche se con il sigillo del nuovo, tutto lo spazio in realtà classico e antico diviso come sempre (e, pur con varie sfumature e contraddizioni, in quasi tutto il mondo, checché ne dicano certi sociologi) tra destra e sinistra, tra libertà ed uguaglianza, tra iniziativa privata e statalismo, tra stato di diritto e giustizialismo. Il Governo Lega-Cinque Stelle, in qualche modo obbligato da una situazione di radicale insoddisfazione, ha però in sé gli elementi di uno scontro futuro che, dopo un periodo più o meno lungo di necessaria decantazione, potrebbe avere lo stesso sbocco della fine dei governi di tipo ciellenistico: uno scontro frontale tra due concezioni radicalmente opposte, ma entrambe uscite da quella stessa esperienza. Le forze escluse dall’attuale governo difficilmente avranno un ruolo da protagoniste, ma potranno lo stesso essere determinanti se sapranno schierarsi attorno alla forza trainante del loro schieramento, la Lega per la destra e i pentastellati per la sinistra, ricordando però che le due scelte non sono affatto equivalenti.

A sinistra accanto alle tradizionali pulsioni antidemocratiche proprie della tradizione comunista, sempre pronta a chiedere divieti, scioglimenti di partiti, limitazioni allo stato di diritto, vi è una nuova minaccia che affida ad un “grande fratello elettronico” le regolamentazione occhiuta e incontrollabile dei suoi aderenti (oggi) e forse di tutti noi (domani), una nuova sinistra che comincia ad attaccare perfino il parlamento nella sua essenza, per proporre qualcosa di nuovo che assomiglia invece pericolosamente alle democrazie popolari con un tocco di Scientology e forse non basterà Luigi Di Maio, che non è un professore, ma è (o sembra) molto più moderato a frenare indefinitamente un partito che in sostanza resta quello di Beppe Grillo, Roberto Fico e Davide Casaleggio. E lo stesso si può dire di Giuseppe Conte, che professore lo è, ma non ha nessun radicamento nel partito.

Se l’attuale difficile equilibrio dovesse davvero saltare (non è detto, anche il calabrone non dovrebbe volare e invece lo fa), Silvio Berlusconi dovrà capire - di Fratelli d’Italia sono sicuro - che non potrà in nessun modo astenersi da appoggiare la Lega in quella che potrebbe essere una nuova campagna per la nostra democrazia, anche se non potrà più avere un ruolo così importante come in passato e inoltre dovrà ricordarsi che la scomparsa politica di Fini non fu dovuta tanto alla macchina del fango, quanto all’errore strategico di unire i suoi pochi voti a quelli delle sinistre contro il governo, perché l’elettorato di centro-destra è molto coeso e si riunisce sempre al pilone centrale, quando intravede Hannibal ad portas. Resta Matteo Renzi e i renziani. Bene, io non credo affatto che Renzi sarebbe disponibile a unire i suoi voti a coloro che vorrebbero chiudere l’Ilva, fermare l’alta velocità, bloccare i gasdotti e deindustrializzare il Paese, né che sia incline a indebolire lo stato di diritto e allora se Luigi Di Maio non riuscirà a trattenere i pentastellati sullo stretto binario dell’attuale governo (che pure conta sull’appoggio di Trump, che non è poco) Renzi potrebbe essere, rompendo con il massimalismo di troppi del suo partito, non tanto il Macron, ma il Willy Brandt o il Saragat di una nuova sinistra per la democrazia italiana, evitando così uno scenario da fronte popolare, Pd-M5S.

Io non so (non lo sa nessuno) se il Governo continuerà, pur se con forze così nuove, con un tranquillo scenario da Grosse Koalition alla tedesca, capace di realizzare gradualmente il “contratto” o si creeranno forzatamente le condizioni di uno scontro, di un nuovo 18 aprile 1948 in epoca informatica e globalizzata. So però che, qualora succedesse, dovremmo assolutamente vincere insieme a Salvini, a cui, piaccia o no, spetterà di necessità - e credo saprà interpretarlo - il ruolo che fu di De Gasperi (incluse le gratuite aggressioni da sinistra) e in questo caso tutti coloro che sono di scuola liberale avranno il dovere di appoggiarlo, dimenticando le pur profonde differenze che esistono e che esistevano anche con la Democrazia cristiana, ma che non possono far dimenticare l’importanza della posta in gioco. Perché ne andrebbe della nostra democrazia, delle nostre proprietà, del nostro progresso e della nostra libertà.


di Giuseppe Basini