Genova e altri disastri: siamo tutti Stakeholders

giovedì 30 agosto 2018


Il premier Giuseppe Conte non è un gran chiacchierone. Solitamente lascia che siano i due angeli custodi, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, a parlare per lui. E i due non si risparmiamo. In particolare il grillino, che sembra affetto da quella che Giorgio Gaber avrebbe definito comicamente: diarrea cogitativa liberatoria. Di Maio, a furia di dichiarazioni sull’universo mondo, si sta incartando al punto da dire una cosa e il suo contrario all’interno della stessa frase. In attesa che la lingua sciolta del giovanotto faccia pace col pensiero razionale, è più salutare ascoltare le uscite distillate del capo del Governo. Diversamente dalla comune vulgata, non pensiamo che Conte sia una testa di legno scelta dai partner della maggioranza per occupare formalmente una poltrona che non poteva andare, per tenere in piedi gli equilibri di potere, a nessuno dei due capibastone, il leghista e il grillino.

Il premier ha dalla sua l’esperienza forense. Da avvocato è addestrato a mettere il diavolo nei dettagli. Perciò, è nelle pieghe dei suoi centellinati interventi che bisogna scavare per capire come la pensi. La scorsa settimana il premier ha concesso un’intervista al “Corriere della Sera” sulla tragedia del ponte crollato a Genova, nella quale, nascosta tra le dichiarazioni da spartito che non poteva non pronunciare, c’è stato qualcosa di davvero intrigante. Conte ha testualmente affermato: “A coloro che invocano lo Stato di diritto dove si celano mere ragioni economiche non rispondo: siamo di fronte a una evidente ipocrisia. A coloro che, invece, pensano che l’unico obiettivo di una società sia distribuire dividendi ai propri azionisti, rispondo: siete rimasti indietro, una società deve farsi carico di una più complessa responsabilità sociale”.

Con un’espressione quasi sussurrata il premier è entrato a gamba tesa in un dibattito annoso, che fa capolino tra “addetti ai lavori”, sulla necessità di ridefinire la struttura del profitto ampliandola alle componenti non economiche. La questione è meglio nota come “Responsabilità sociale d’impresa” (Rsi) o “Corporate Social Responsibility”(Csr). Cos’è? Si tratta dell’insieme “dei comportamenti responsabili che un’organizzazione produttiva assume per rispondere alle aspettative di tipo economico, sociale ed ambientale originate dall’interesse dei propri interlocutori a influenzare, o a essere influenzati, dalle sue azioni” (la definizione è nostra). Il dinamismo imposto alla componente capitalista dalla trasformazione in senso globale dell’economia di mercato ha favorito, nei suoi critici, l’idea che l’impresa dovesse cominciare a fare i conti con altre implicazioni non riconducibili alla mera costruzione del profitto. L’azienda che opera in un contesto socio-ambientale definito non è una monade ermeticamente chiusa alle influenze esterne.

Ciò che essa fa, o non fa, inevitabilmente influenza, modificandola, la sfera d’interesse di qualcun altro, siano singoli individui, gruppi o intere comunità. L’impatto può prodursi in vari campi: da quello sociale, a quello finanziario, a quello ambientale. Finora il capitale ha avuto mano libera nel perseguire il suo unico scopo: il profitto economico. Oggi tale pretesa non è più sostenibile tout court. Si pensi al caso eclatante dell’Ilva di Taranto. Il gruppo industriale vincitore della gara per l’assegnazione del più grande polo dell’acciaio in Europa avrà ben diritto a fare guadagni ma non al prezzo d’avvelenare i cittadini che vivono in prossimità degli impianti produttivi. Viceversa, i tarantini hanno interesse a che i nuovi proprietari dell’Ilva riprendano a produrre salvaguardando i livelli occupazionali diretti e le economie dell’indotto, ma non al prezzo di morire prematuramente a causa delle sue emissioni cancerogene. Contemperare le opposte esigenze per iniziativa della corporate governance della grande azienda in assenza, o a prescindere, da vincoli normativi cogenti è Responsabilità Sociale d’Impresa. L’imprenditore responsabile è colui che agisce senza aspettare che una qualche autorità pubblica glielo ordini, cioè sceglie la strada di “un’autoregolamentazione etica esplicita” della sua attività. Si tratta di compiere una rivoluzione copernicana nel modo di fare impresa.

Ma non solo. Deve cambiare anche la mentalità del cittadino comune il quale deve prendere coscienza della sua posizione di portatore d’interesse in una molteplicità di situazioni di prossimità che lo coinvolgono. La dottrina li chiama “Stakeholders”. Sotto tale denominazione trova posto “qualsiasi gruppo o individuo che può influenzare o essere influenzato dagli obiettivi o dalla gestione di un’azienda” (la definizione è di R.E. Freeman). Una grande azienda non può ignorare il peso del valore immateriale stimato per il suo marchio. Si tratta del fattore reputazionale che, nel tempo storico dell’informazione diffusa, determina il successo, quando non la sopravvivenza, dell’organizzazione imprenditoriale. Un danno provocato agli Stakeholders dalla naturale propensione del management e degli azionisti a massimizzare la ricchezza a spese dell’impatto sul contesto nel quale l’attività aziendale è inserita fa scappare a gambe levate gli investitori e ne affonda il titolo in Borsa, quando quotata, per la perdita di fiducia dei mercati finanziari.

Oggi per essere credibili si deve saper comunicare la qualità responsabile del prodotto o del servizio che si processa e dell’organizzazione aziendale che lo supporta. Nel 2005, il premier Giuseppe Conte, da accademico, ha dedicato all’argomento uno studio, inserito all’interno di una collettanea di scritti di Diritto pubblico e privato. Chissà che non voglia, da politico, sperimentarlo nella prassi quotidiana. Capitani d’impresa e signori della finanza si preparino a qualche novità che forse li farà meno ricchi, ma socialmente migliori.


di Cristofaro Sola