Il Def e lo “scandaloso” Reddito di cittadinanza

Il Documento di Economia e Finanza è finalmente al nastro di partenza nonostante le chiacchiere (troppe) che lo hanno accompagnato fino ad oggi complicandone parecchio il percorso. E, soprattutto, complicando la vita al Governo giallo-blu che sui conti della manovra rischia di farsi del male da solo. Quel che al momento appare certo è che il rapporto Deficit/Pil nel 2019 sarà del 2,4 per cento. Per gli anni successivi è destinato a calare. Ma questo lo si verificherà a tempo debito. Altrettanto certa è la conferma della presenza in manovra del contestatissimo Reddito di cittadinanza, cioè la misura destinata a ridurre la povertà.

Su questo punto le opposizioni hanno annunciato una battaglia parlamentare all’ultimo sangue perché esse sostengono si tratti di un’iniziativa improvvida di puro assistenzialismo che non aiuterà la crescita e non favorirà il reinserimento dei disoccupati nel mondo del lavoro. Oltre, qualche commentatore si è lasciato andare a sgradevolissime considerazioni su ipotetici sussidi ai fannulloni del Sud o a misure che consentiranno alla gente di poltrire sui divani di casa propria a spese dello Stato. Si tratta di amenità che lasciano il tempo che trovano. La realtà sta da un’altra parte e di sicuro non frequenta le redazioni dei giornali.

Esiste in Italia un problema vero di povertà che ha assunto dimensioni drammatiche. Nessun governo che abbia a cuore l’interesse nazionale può ignorarne la gravità. È dunque evidente che vi sia un’emergenza in ordine alla redistribuzione della ricchezza. Il punto è come affrontarla. Chi sostiene che l’unica ricetta praticabile sia la creazione di lavoro non sbaglia, in linea teorica. Tuttavia, non tiene conto del gap temporale che permane tra l’ipotetica ripresa dell’economia e la sottrazione di una consistente fascia di popolazione dallo stato di povertà nel quale versa. Perciò, è inutile girarci intorno: occorre mettere mano a misure di sostegno immediato che consentano a chi oggi non può permetterselo di avere un piatto in tavola due volte al giorno e un tetto sulla testa, senza per questo dover buttare alle ortiche la propria dignità di persona. E giusto per chiarirci le idee, fare politiche sociali appartiene alla tradizione politica e culturale della destra, anche di quella ispirata a principi liberali. Il welfare state non l’ha inventato Karl Marx ma era praticato già nella Germania del Secondo Reich sotto l’eccellente governo del cancelliere Otto von Bismarck. Ma non occorre scomodare i defunti per ricordare che il rimpianto Governo Berlusconi, nel 2008, Giulio Tremonti regnante al ministero dell’Economia, aveva varato la cosiddetta “Social card” che è l’ascendente diretto della misura che ha in mente d’implementare Luigi Di Maio. La sola differenza sta nella quantità di denaro disponibile. Alcune centinaia di milioni di euro con Berlusconi, 10 miliardi per il Governo Giallo-blu. Negli odierni propositi i destinatari dell’aiuto potranno usufruire della misura pagando con una tessera bancomat l’acquisto di beni di prima necessità. Non altro.

Il giovane Di Maio poteva anche risparmiarsela l’uscita “gentiliana” sulle spese morali che sarebbero vigilate dallo Stato. Qui l’etica c’entra poco. La necessità di provvedere ad indirizzare la spesa sociale serve ad assicurare che la misura di sostegno colpisca l’obiettivo trasversale di stimolare la domanda interna che è il vero punto debole del sistema economico italiano. Per raggiungere gli obiettivi di crescita individuati per il prossimo triennio non basta puntare sull’export delle nostre aziende d’eccellenza. È necessario che siano gli italiani a convincersi a spendere di più in prodotti di largo consumo. Il reddito di cittadinanza in versione “social card” serve a funzionare da moltiplicatore economico immettendo nel circuito un flusso di liquidità che altrimenti non vi entrerebbe per altre vie. Più consumi significa aumento delle produzioni e, per caduta, incremento dell’occupazione. Questa è la scommessa del Governo. Se Giuseppe Conte e soci riescono a incrociare la ripresa nessuno li schioderà dalle stanze di Palazzo Chigi per i prossimi anni. Diversamente, saranno mandati a casa dagli italiani e anche in malo modo. E allora avremo tutti un bel problema perché chi verrà dopo di loro se avranno fallito? Quelli del Partito Democratico? Dio ce ne scampi. O i fantastici “tecnici” che tanto piacciono all’establishment europeo? Sarebbe come cadere dalla padella alla brace.

Resterebbe da riesumare il centrodestra che, paradossalmente, dovrebbe candidarsi a tornare al comando sulla scorta del vecchio armamentario di riforme che non è molto dissimile da quello perseguito oggi dai giallo-blu. Sarebbe roba da manicomio. Forza Italia tornerebbe in pista per dire che non si fa la revisione della “Fornero” perché scasserebbe i conti pubblici ma si aumentano le pensioni minime a mille euro per tutti; non si fa il Reddito di cittadinanza perché è una misura assistenziale ma si dà la “Social card” ai poveri per combattere il disagio; non si fa la Flat tax per le “Partite Iva” perché si punta a una misura universale di riduzione delle tasse che però non si può varare fin quando non si trovano le coperture finanziarie sufficienti. Se dovesse essere così, consiglieremmo alle teste pensanti forziste che in questi giorni si predispongono a redigere una contromanovra finanziaria da portare all’attenzione dell’opinione pubblica di cercarsi come futuro leader, al posto del vecchio leone di Arcore che è sempre stato e lo è ancora persona di buon senso, uno psicanalista. Ma uno bravo. Servirà.

Aggiornato il 05 ottobre 2018 alle ore 09:55