La Repubblica dei magistrati intoccabili

Come cittadino, che crede di essere consapevole di quello che questa parola dovrebbe significare, sono preoccupato (e molto) dagli assetti normativi del nostro Paese in materia di giustizia per i loro effetti distorsivi sulla democrazia liberale.

Non voglio ripercorrere la storia degli ultimi trent’anni di conflitti tra i poteri dello Stato (causa e non solo effetto, del crollo della Prima e della Seconda Repubblica) né entrare nel merito di singoli fatti, anche gravi, ma voglio provare a fare un discorso generale sul perché possano esistere queste distorsioni e su ciò che le rende tuttora sempre possibili. Non mi interessa tanto valutare l’esistenza di toghe politicizzate, singole o collegate, che stravolgano il codice per fini di parte fino a privare della libertà e dell’onore degli innocenti, mi interessa sapere se, dalle nostre leggi, questo rischio sia sufficientemente contrastato o, al contrario, favorito. Temo che il rischio ci sia, sia grave e sia reso possibile proprio dall’assetto normativo generale.

Anzitutto il problema della responsabilità. Quello che ci permette, con una certa (pur se relativa) tranquillità, di stenderci sul lettino di un chirurgo o di transitare su di un viadotto, è il principio di responsabilità, per cui il medico o l’ingegnere in causa, è tenuto a rispondere degli errori fatti per sua colpa, anche se commessi senza volontà di ferire e cioè senza dolo, e questo per il cittadino è una garanzia di maggiore scrupolo a tutela della sua vita. I magistrati no, a loro questo principio non si applica allo stesso modo, se un innocente vede la sua vita rovinata da una prigionia ingiusta, non basta la semplice colpa perché il magistrato paghi, occorre il dolo, cioè che l’abbia fatto volontariamente e poi dimostrarlo con prove molto difficili da trovare (soprattutto quando, ad esempio, è un pregiudizio ideologico a spingerlo) e in ogni modo, anche in caso di colpa grave, sarà sanzionato soltanto civilmente (con lo Stato a pagare la maggior parte dei rimborsi) e non anche penalmente. E poi, mentre tutti noi cittadini siamo giudicati da una magistratura esterna alle nostre vite e alle nostre professioni, cioè un organo con cui non abbiamo contatti e dimestichezza, i magistrati no, è la magistratura stessa, quella di cui fanno parte, a giudicarli.

Un altro problema di fondo è quello della divisione dei poteri e, prima ancora, su cosa si debbano basare questi poteri. In democrazia, nelle forme costituzionali, il potere proviene dal popolo attraverso libere elezioni e dunque, in Italia, dove solo il Parlamento è elettivo, esso solo è l’organo a cui compete dare la fiducia al Governo e fare le leggi rispettando la volontà popolare. La magistratura da noi non è e non può essere un “potere”, perché priva di legittimazione popolare (e difatti nel nostro ordinamento è definita come ordine) e tantomeno può sostituirsi o interferire col Parlamento e il Governo. In realtà, in forma pienamente realizzata, una democrazia realmente fondata sulla classica tripartizione dei poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario – esiste solo negli Stati Uniti, dove quasi tutte le cariche pubbliche sono elettive. Quando però la magistratura può indagare e giudicare un parlamentare o un partito, senza che invece nessun organo esterno possa indagare e giudicare su singoli magistrati o sui loro organi costituenti, è di tutta evidenza che siamo di fronte ad un pericoloso sbilanciamento che, di fatto, lascia aperta la strada ad un prevalere dell’ordine giudiziario non elettivo, sul Parlamento eletto.

Jefferson ammoniva: “In materia di potere smettiamolo di credere nella buonafede degli uomini, ma mettiamoli in condizione di non nuocere con le catene della costituzione”. Ed è proprio qui il problema, il nostro assetto normativo che si sforza di tutelare la civile convivenza tra cittadini e, con le leggi e le elezioni stesse, anche la correttezza delle istituzioni politiche, non ci garantisce invece affatto da eventuali deviazioni illegittime di magistrati. Infatti, a cominciare dalla loro pratica sottrazione al principio generale di responsabilità, per proseguire con la impossibilità per un organo esterno di indagarli e per finire con la prerogativa che il giudizio su di loro sia sempre e solo affidato all’organo di cui fanno parte, sono di fatto posti nella condizione di essere quasi immuni dai rigori della legge. In pratica basta un “libero convincimento”, basato su indizi, di un pubblico ministero e di un giudice, per portare al rinvio a giudizio di un noto esponente politico e così ledere gravemente non solo la vita di quell’uomo, ma anche il funzionamento della democrazia stessa (e a volte basta un semplice avviso di garanzia) mentre se poi il politico (o l’industriale o il semplice signor Rossi) verrà assolto, anche con formula piena, nessuno pagherà, perché non esiste un’autorità indipendente “esterna” che possa indagare sulla legittimità (e le vere ragioni) di quell’incriminazione.

Noi potremo ristabilire l’equilibrio dei poteri (e la democrazia) solo o ripristinando la completa separazione degli stessi, come era con la tradizionale immunità parlamentare della prima costituzione, che difendeva il Parlamento dagli abusi di ogni potere assoluto, o al contrario dando anche alle camere poteri ordinari di indagine e sanzione nei confronti dei magistrati, o infine ancora creando una corte speciale di giuristi, obbligatoriamente estranei alla magistratura, con lo scopo unico di indagare e sanzionare gli eventuali crimini commessi da magistrati. L’equilibrio dei poteri è davvero essenziale per il funzionamento di una democrazia. Non meno essenziali, anzi, sono i diritti del cittadino, troppo spesso violati. Da noi il carcere preventivo viene usato in maniera indiscriminata, violando il principio sacrosanto che nessuno possa essere incarcerato prima di un processo in cui venga provata (e, ripeto, provata) la sua colpevolezza, in un pubblico dibattimento fatto con tutte le garanzie. E se si può ammettere la prevenzione nei casi di omicidi e massimamente in quelli del crimine organizzato o del terrorismo, perché l’eventuale ripetizione dell’atto crea il fatto irreversibile della morte, non è invece ammissibile in tutti gli altri casi, in cui può configurare – e senza nemmeno la difesa della cauzione – un vero e proprio abuso, volto o ad estorcere confessioni con la minaccia del carcere o a mostrare il volto onnipotente dello stato di polizia e questo senza che gli italiani se ne rendano nemmeno ben conto, convinti che per andare in prigione ci voglia un giusto processo, come la logica vorrebbe. E su questo si innesta il problema grave e urgente della separazione delle carriere.

Pubblici ministeri e giudici devono avere non solo funzioni, ma proprio appartenenze e carriere rigidamente separate, la pubblica accusa non può essere messa in condizione di vantaggio, effettivo e talvolta determinante, rispetto alla difesa, grazie all’appartenenza alla stessa magistratura dei giudici. La funzione giudicante propria del giudice, deve sempre essere super partes, terza, indipendente dalla difesa e dall’accusa, altrimenti il giusto processo diviene solo una parola. Rimangono la durata dei processi, le troppe leggi e la loro interpretazione estensiva. Mentre il primo punto ci rimanda alla carenza cronica di organico che ormai potrebbe essere curata (vincendo non poche resistenze corporative) forse solo immettendo in massa, con procedure anche essenziali, avvocati cassazionisti nei ruoli della magistratura (anche per portare una cultura diversa, non principalmente punitiva, tra le toghe) per poter celebrare i processi, senza dover distruggere, allungandola a dismisura, la garanzia della prescrizione. Il secondo punto, che coinvolge direttamente anche il legislatore, riguarda la possibilità pericolosa che troppe leggi, e fatte in tempi diversi, possano fatalmente trovarsi in contraddizione tra loro, indebolendo la certezza del diritto ed aprendo la strada ad interpretazioni, anche arbitrarie, che possono minare lo stato di diritto. Le legislazioni “emergenziali”, ad esempio, troppo spesso sono in contrasto evidente coi principi di un ordinamento liberale e il risultato può essere che, con l’occhio fisso sulle organizzazioni criminali, si dimentichi, come troppo spesso è successo nella storia, il pericolo che uno Stato, che dispone di mezzi ben più potenti, finisca per farsi esso stesso criminale.

Il diritto non può essere solo un fatto di diritto positivo, con qualunque legge da considerarsi valida se inserita in un contesto legislativo coerente con essa, non dobbiamo mai dimenticarci i principi del giusnaturalismo inseriti nella costituzione, tra cui quelli della pena come rieducazione e della presunzione d’innocenza. E, quando si parla di principi, non c’è potere costituito e sapienziale fatto di procedure e di codici che tenga, la libertà è il valore fondamentale e la Giustizia è una cosa troppo importante perché se ne occupino solo i magistrati. È cosa di tutti.

Aggiornato il 10 ottobre 2018 alle ore 09:59