L’Italia va alle grandi manovre (finanziarie)

Rispetto al Documento programmatico di bilancio spedito dall’Italia, la Commissione dell’Unione europea aveva due opzioni: farne la base di un negoziato con Roma o respingerlo avviando una prova di forza con un governo ritenuto nemico. Bruxelles ha scelto la seconda.

Da tempo era chiaro che lo scontro che si andava profilando fosse di natura prettamente politica e riguardasse la visione-ruolo dell’Unione europea propugnata dalle forze sovraniste, opposta a quella praticata dall’establishment. La questione del Deficit al 2,4 per cento nel rapporto con il Pil è stato solo un pretesto. Chi la spunterà? È presto per dirlo. Di certo la governance europea fa affidamento sull’irrazionalità dei mercati finanziari i quali, in una condizione d’incertezza sulle possibilità di successo della “mossa del cavallo” azzardata dal Governo giallo-blu, dovrebbero di regola evitare esposizioni sul nostro debito sovrano. La crisi finanziaria che ne seguirebbe, con un’impennata a livelli sudamericani dei rendimenti dei titoli di Stato italiani, dovrebbe provocare, nel disegno dei Commissari europei, la caduta del Governo giallo-blu e, al suo posto, l’instaurazione di un Esecutivo “tecnico” a cui affidare il compito di riportare l’Italia nei ranghi della rigida filosofia comunitaria sulla stabilità monetaria. Ma l’establishment europeo teme che la scommessa di Roma possa avere buon esito. Se realmente il nostro Paese, impegnando risorse in deficit, riuscisse a colpire l’obiettivo di crescita, fissato nel 2019 all’1,5 per cento del Pil, verrebbero sconfessati anni di politiche di austerity imposte da Bruxelles. Se la ricetta romana funzionasse, stuoli di eurocrati che si sono succeduti al comando della corazzata europea dovrebbero ammettere di avere sbagliato. Sarebbe troppo per chiunque, a maggior ragione lo sarebbe per una categoria di burocrati assurta agli altari del potere a dispetto di quanto i meriti e le capacità individuali lo giustificassero.

L’approssimarsi del turno elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo rende ancor più drammatico lo scontro nel quale sembra materializzarsi il claim del film Highlander: “ne rimarrà soltanto uno”. Quindi, ci sarà la guerra. Come pacatamente aveva annunciato il ministro degli Affari europei, Paolo Savona, ben consapevole della posta che il Governo giallo-blu si apprestava a mettere in gioco nel momento in cui decideva di ribaltare il paradigma europeo della stabilità. Che fare? La prima cosa è non piangersi addosso; la seconda è di approntare adeguate misure di difesa; la terza è reagire con tutte le armi, convenzionali e non, disponibili.

La prima. Se si è trovato il coraggio di ingaggiare una sfida tanto impegnativa non ci si può abbandonare al vittimismo, bisogna piuttosto tenere la barra dritta mostrando al mondo che ci osserva di avere il controllo della situazione. E dei nervi. Quando si sta su una barca ciò che terrorizza i passeggeri non è la tempesta che si avvicina ma la mancanza di idee chiare del timoniere che l’affronta.

La seconda. Il mondo non comincia e non finisce a Bruxelles. All’indomani della presentazione della Nota di aggiornamento al Def, il premier Giuseppe Conte si era impegnato ad andare personalmente dagli investitori internazionali a spiegare nel dettaglio la manovra e, soprattutto, i risultati attesi. Lo faccia! Finora i mercati hanno sentito la campana a morto dell’Unione europea alla quale è stato contrapposto un inutile “me ne frego!”. Gli investitori non vogliono ascoltare slogan ma verificare, carte alla mano, la sostenibilità dei progetti per i quali si chiedono soldi in prestito. Ai fondi d’investimento non interessa come i debitori spendano i quattrini ricevuti, ciò che conta è che i titoli detenuti in portafoglio non si svalutino, i crediti concessi siano garantiti e gli interessi maturati vengano pagati regolarmente. Ma non sono in gioco soltanto partite finanziarie. C’è anche la geopolitica con la quale fare i conti. Da sempre si dice della centralità strategica dell’Italia nello scacchiere mediterraneo. L’amicizia con il nostro Paese fa gola a parecchi, agli Usa in primis, ma anche alla Russia e perfino alla Cina. Ebbene, se è vero lo dimostrino. Tanto negli Stati Uniti quanto nella Federazione Russa e nella Repubblica Popolare Cinese operano fondi d’investimento che, di fatto, spalleggiano le politiche estere dei loro Paesi. Quale occasione migliore per proporre agli alleati effettivi o potenziali un conveniente shopping con i titoli del Debito pubblico italiano?

La terza. Quando si è attaccati si risponde e non necessariamente la reazione deve essere proporzionata all’offesa. La Commissione europea vuole mettere l’Italia alle corde? Allora Roma scateni l’inferno a Bruxelles. Il Governo, in base ai Trattati europei, può esercitare il diritto di veto sulle decisioni comunitarie più rilevanti. È giunto il momento di dire un bel po’ di no a quest’Europa che conosce solo il linguaggio della volontà di potenza. Si cominci, in attesa del piatto forte della bocciatura del bilancio pluriennale comunitario, dal veto al rinnovo delle sanzioni alla Russia che, finora, hanno fatto malissimo al nostro sistema produttivo. Poi vedremo chi per primo abbasserà la cresta. In queste ore circola un’affermazione che, sebbene formalmente corretta, suona come un’offesa inaccettabile: “L’Italia è troppo grande per fallire”. Ne proponiamo una alternativa, più gradevole per il nostro udito: “L’Italia? Troppo grande per essere messa sotto i piedi. Da chiunque”.

Aggiornato il 26 ottobre 2018 alle ore 12:19