Sabato Cinque Stelle: quando si dice la sfiga

Per Luigi Di Maio e soci un sabato più nero non poteva capitare. A Roma e a Torino due eventi, apparentemente slegati, hanno dato esiti non propriamente confortanti per le aspettative dei Cinque Stelle.

Nella Capitale è giunta l’attesa sentenza del processo che vedeva coinvolta la sindaca Virginia Raggi. La prima cittadina era stata chiamata in giudizio con l’accusa di falso ideologico in atto pubblico per aver mentito, questa la tesi del Pubblico ministero, “alla responsabile dell'Anticorruzione del Campidoglio nel dicembre del 2016” sulle circostanze che avrebbero condotto alla nomina di Renato Marra, fratello dell’allora suo uomo di fiducia, Raffaele, alla direzione del dipartimento Turismo del Comune di Roma. L’accusa ha chiesto per l’imputata una condanna a dieci mesi di reclusione. Il giudice monocratico della sezione penale del tribunale di Roma, Roberto Ranazzi, si è invece pronunciato per l’assoluzione perché il fatto, pur sussistente, non costituisce reato. Felicissima la Raggi, assai meno i compagni di partito. Di Maio e i suoi speravano nello scivolone della sindaca. Il riconoscimento della colpevolezza avrebbe fatto scattare la clausola dal codice etico grillino per la quale la Raggi si sarebbe dovuta dimettere dal suo incarico. Dal punto di vista della dirigenza del “Movimento” sarebbe stato il modo migliore, o meno traumatico, per sbarazzarsi di un peso ingombrante, attesi i pessimi risultati che dopo due anni mezzo di amministrazione comunale la loro rappresentante ha inanellato nel non-governo della Capitale d’Italia. Non avrebbero mai potuto ammetterlo apertamente ma i primi a non volerla più sulla vetta del Campidoglio erano gli stessi colleghi di partito, terrorizzati dall’impatto che la carente gestione dei grandi mali di cui è affetta la città si potesse ripercuotere sul consenso elettorale nelle ormai vicine urne primaverili.

La prova di tutto ciò l’hanno offerta inconsapevolmente lo stesso Di Maio e il suo alter ego, Alessandro Di Battista. I due, dopo aver ricordato alla Raggi poche ore prima della sentenza che, in caso di condanna, avrebbe dovuto togliere il disturbo, ad assoluzione avvenuta hanno dovuto fare macchine indietro scaricando la delusione su quegli “infimi sciacalli” dei media e sui giornalisti “puttane” responsabili di aver montato il caso. Una reazione scomposta indegna di uomini delle istituzioni presenti e future che, tuttavia, è direttamente proporzionale al disagio vissuto per l’esito indesiderato della vicenda giudiziaria. Ora Virginia Raggi, riconosciuta innocente, è condannata a rimanere sulla scena capitolina a fare da bersaglio al tiro a segno delle opposizioni che avranno buon gioco nel denunciare il suo non far nulla di efficace per la città.

Come se non bastasse, c’è stata la marcia dei trentamila “Sì Tav” a Torino, messa in moto dall’iniziativa di sette donne coraggiose, sette “bogianen”, madamine piemontesi non appartenenti ad alcuna scuderia partitica che dal palco della manifestazione hanno invocato, a disdoro dei veti grillini, perfino la lungimiranza di Cavour. I sabaudi sono così, non arretrano e tengono duro e questo la sindaca Chiara Appendino lo sa bene. Ecco perché per la sua leadership cittadina quella folla è stata una mazzata inattesa. Dopo anni di dominio incontrastato della piazza da parte dei contestatori del progetto paneuropeo dell’Alta velocità Torino-Lione e, soprattutto, dopo la presa di posizione del Consiglio comunale torinese, a maggioranza Cinque Stelle, che ha votato una mozione per bloccarne la costruzione, è ricomparsa in Piazza Castello la maggioranza silenziosa per dire sì alla realizzazione della grande opera ritenuta strategica per l’economia del Paese. Torino non è nuova a vivere momenti eccezionali nei quali la Storia cambia verso.

Il 14 ottobre del 1980, la “Marcia dei quarantamila” decretò la fine del braccio di ferro tra la Fiat e i sindacati unitari che avevano imposto lo sciopero a oltranza e il picchettaggio ai cancelli della fabbrica d’automobili. Dietro lo striscione “Vogliamo la trattativa non la morte della Fiat” si erano ritrovati i quadri aziendali. Nessuno però poteva immaginare che il corteo si sarebbe esteso alla partecipazione della gente comune la quale sentiva di appoggiare la volontà dei dipendenti di rientrare al lavoro dopo 35 giorni di astensione forzata. Fu un colpo terribile per i sindacati che dovettero nel giro di poche ore rinnegare la strategia aggressiva e giungere rapidamente a un’intesa con la dirigenza della Fiat. Quella marcia è passata alla storia, come inevitabilmente accadrà a quella di sabato scorso dei “Sì Tav”. Questa volta a farne le spese è stato il dogmatismo ideologico di un movimento che ha fatto fortuna raccontando a un Paese stanco e deluso dalla politica politicante che il futuro dell’Italia dovesse essere uno spazio vuoto dove, in nome di un antistorico senso dell’ambientalismo pauperista, non si edifica più, non si perforano le montagne, non si fanno andare i treni più velocemente e tutto si riporta indietro a un mitico passato aureo che nella realtà non è mai esistito.

Come ha scritto qualcuno, i grillini torinesi hanno vestito i panni dei luddisti. Anche loro, come gli antenati inglesi, hanno creduto che distruggendo le macchine e le infrastrutture portate dalla modernità sarebbero stati meglio. Mai utopia è stata più fallace. E i trentamila di Torino sono andati in piazza a ricordarglielo. Da oggi niente per Di Maio e soci sarà uguale a prima. Se vorranno continuare a governare dovranno accendere un falò e bruciarci sopra quella perversa fantasia che hanno chiamato decrescita felice. E lo dovranno fare alla svelta perché l’alleato leghista, messo alle strette, potrebbe staccare la spina all’esperimento di Governo giallo-blu con la prevedibile conseguenza che se i grillini, per i troppi no a cui sono rimasti inchiodati, uscissero adesso dalla stanza dei bottoni non vi farebbero ritorno per molto, moltissimo tempo. Se dovessero finirla qui di loro resterà solo il ricordo di uno sterile assistenzialismo di Stato, incapace di coniugarsi con l’istanza avvertita dalle componenti produttive della società civile di una razionale strategia di modernizzazione infrastrutturale del Paese. E a chi piacerebbe essere ricordato per un epocale fallimento?

Aggiornato il 12 novembre 2018 alle ore 10:15