Luigi Di Maio, nipote di Mubarak?

Non ci piace rovistare nella spazzatura. Tuttavia, non possiamo chiudere gli occhi davanti al possibile scandalo che minaccia l’orizzonte stellato del giovane vice-premier Luigi Di Maio. Si tratta della scoperta dell’appartenenza del leader grillino alla folta schiera dei giornalisti italiani. Non che ci sia qualcosa di male ad avere in tasca il tesserino dell’Ordine dei giornalisti. A ben vedere è pur sempre un indicatore di potenzialità professionali, anche se, come disse Luigi Barzini jr., fondatore e direttore de “Il Globo” dal 1945 al 1948, “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare”.

Il fatto è che del Di Maio cronista non si ha traccia. In effetti, neanche l’interessato ha mai tenuto a pubblicizzare la sua appartenenza all’Ordine dei “pennivendoli”. Nella presentazione, appostata sul sito del Movimento, Luigi si racconta descrivendo il percorso esistenziale che lo ha condotto dall’infanzia, quando sognava di diventare poliziotto, a sedere in Parlamento. Eppure, in un curriculum scarno di titoli di studio la qualifica professionale di giornalista pubblicista non avrebbe sfigurato. Per di più che l’iscrizione risale al 4 ottobre 2007, quando il vice-premier aveva 21 anni. Insomma, avrebbe potuto essere un enfant prodige della carta stampata invece lo è diventato della politica. Tutto nella norma. Ma quel vuoto di memoria sul periodo giornalistico non poteva sfuggire ai maligni, in particolare dopo la reazione scomposta che Di Maio ha avuto nei confronti dei colleghi dei media a proposito della vicenda giudiziaria della sindaca Raggi. Doveva immaginarlo il grillino che, essendo quella dei giornalisti una corporazione particolarmente puntuta quando si tratta della difesa della propria reputazione, una reazione proporzionata all’offesa vi sarebbe stata. Un po’ se l’è cercata, quando ha definito i giornalisti “infimi sciacalli”.

E cosa fanno gli sciacalli per vivere? Da mangiatori di carogne, fiutano il sangue. Inevitabile, quindi, che si accendessero i riflettori su quell’appartenenza sospetta. In base alle normative del settore, Di Maio ha ottenuto l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti avendo documentato un’attività continuativa di collaborazione ad una testata giornalistica riconosciuta di almeno due anni. Tale collaborazione si sarebbe concretata nella pubblicazione di 70 articoli a firma del candidato, regolarmente pagati. Ora, calendario alla mano, Di Maio tutto questo avrebbe dovuto realizzarlo poco più che diciottenne. Di grazia, con quale testata avrebbe coronato il sogno adolescenziale di diventare giornalista?

Il Consiglio dell’Ordine competente per territorio ha fatto sapere che le documentazioni propedeutiche alle istruttorie per l’iscrizione non vengono conservate negli archivi, per cui non vi sarebbe modo di risalire alla fonte dell’ingaggio e, soprattutto, al contenuto degli articoli presentati a corredo della domanda d’iscrizione. Nel frattempo, i giornali, che hanno fiutato la notizia, hanno chiesto notizie alle possibili redazioni che avrebbero offerto ospitalità e opportunità retribuita all’aspirante Di Maio. Di tutta risposta è fioccata una gragnuola di “No”, “non risulta”, “non da noi”, “mai visto”, che suscita più di un dubbio sulla regolarità della pratica. Potrebbe essere stata una testata locale che si occupa di calcio ad aver aperto le braccia al giovanotto. Ma 70 “pezzi” di sport si traducono in un’attività cronistica pressoché quotidiana che avrebbe costretto l’aspirante giornalista a saltare come un grillo da un campetto all’altro del calcio dilettantistico. Curriculum alla mano, in quel biennio decisivo per la sua maturazione lo studente Di Maio era contemporaneamente impegnato a tentare il percorso universitario al Politecnico per diventare un giorno ingegnere informatico, salvo poi a ripensarci e a ripiegare sulla facoltà di giurisprudenza. Nel frattempo, tra una lezione e l’altra, Di Maio è stato impegnato a costituire un’associazione studentesca, a fondare un giornalino universitario e a farsi eleggere presidente del Consiglio degli studenti. Non bisogna essere Hercule Poirot per capire che qualcosa non quadra.

Ora, non glielo auguriamo perché restiamo fedeli all’idea che gli avversari politici debbano essere combattuti e sconfitti sul campo aperto delle visioni della società e del futuro, ma temiamo che questa vicenda darà la stura al peggiore giustizialismo basato sul fango e sulla delegittimazione morale del competitore che si vuole colpire. Che è poi un copyright dei Cinque Stelle. In passato abbiamo con sdegno respinto la campagna diffamatoria ai danni di Silvio Berlusconi quando l’orda giustizialista si accaniva sulla non-storia di Ruby-nipote di Mubarak. Oggi tocca a Di Maio finire sulla graticola del sospetto anticamera della verità. Se il principe degli “onesti” dovesse essere beccato per un imbroglio di piccolo cabotaggio sarà difficile sottrarlo ai denti acuminati dei media. È un abominio che, in una fase delicatissima per la vita del Paese, l’attenzione dell’opinione pubblica possa essere dirottata verso un pur deprecabile scandaletto di quart’ordine. Tuttavia, una domanda rimbalza: se cade Di Maio, propiziatore insieme al suo omologo Matteo Salvini della strana alleanza giallo-blu, cade anche il Governo? Ora, sarà pure voyeuristico spiare dal buco della serratura il passato di Luigi Di Maio, ma una fine traumatica dell’Esecutivo nel momento in cui il Paese è sotto attacco delle istituzioni europee che hanno dichiarato guerra all’avanzata dei populisti, potrebbe farci molto male. È bene che tutti, politici e media, ne siano pienamente consapevoli. Detto ciò, che il giornalismo d’inchiesta faccia pure il suo dovere.

Aggiornato il 15 novembre 2018 alle ore 11:07