Recapitata a Bruxelles la dichiarazione di guerra

Roma ha risposto a Bruxelles che chiedeva una sostanziale correzione della manovra finanziaria presentata in ottobre.

Ad ascoltare i protagonisti nostrani del duello con l’Unione europea sembrerebbe che l’Italia voglia mantenere il punto, tutto politico, sull’inversione di rotta rispetto ai diktat della Commissione europea. Viceversa, anche gli eurocrati mostrerebbero l’intenzione di andare allo scontro con il Governo Giallo-blu, fino alle estreme conseguenze. Ma la realtà potrebbe essere ben diversa. È vero che la risposta italiana conferma la volontà di tenere le cifre incriminate del rapporto Deficit/Pil e della previsione di crescita nel 2019, rispettivamente al +2,4 per cento e al +1,5 per cento. Tuttavia, nella lettera inviata dal nostro Governo alla Commissione europea, si ipotizzano due possibili ritocchi che modificherebbero il quadro di finanza pubblica.

In primo luogo, il Governo italiano chiede che lo stanziamento per il riassetto idrogeologico delle aree colpite dalle recenti catastrofi naturali, valutato in circa 5 miliardi di euro, venga scorporato dal computo del disavanzo ordinario, proprio per la sua caratteristica di fattore eccezionale. Tale aggiustamento abbasserebbe il Deficit preventivato dal 2,4 per cento al 2,2 per cento, raggiungendo una quota molta vicina a quella che la Commissione consentirebbe concedendo il massimo della flessibilità.

La seconda opzione inserita nella lettera riguarderebbe l’accelerazione dell’abbattimento del Debito. Il Governo, a riguardo, sarebbe pronto a giocare la carta della dismissione di una parte del patrimonio immobiliare. In effetti, non sarebbe una cattiva idea. Lo Stato potrebbe fare cassa rapidamente se decidesse una buona volta di dare la possibilità, ai cittadini interessati, di acquistare a condizioni agevolate rispetto ai valori correnti di mercato gli immobili che essi occupano legittimamente e che appartengono alla galassia degli Istituti autonomi delle case popolari. Con tale operazione si otterrebbe ugualmente il trasferimento allo Stato di una quota della ricchezza oggi investita nel risparmio privato, evitando però il ricorso alla leva fiscale con l’introduzione di improvvide “patrimoniali”.

Oltre alle proposte che vengono messe nel piatto del negoziato con Bruxelles, vi sarebbe anche un non-detto che consentirebbe di sterilizzare eventuali eccessi di rialzo del Deficit nel caso di mancato conseguimento degli obiettivi di crescita nei numeri indicati nel progetto di Bilancio. Si tratta delle due misure simbolo del Governo Giallo-blu: il reddito di cittadinanza e la quota 100 per l’accesso alla pensione. I fondi occorrenti per coprire l’avvio delle due riforme sono stati inseriti nel Bilancio 2019. Tuttavia, l’implementazione è stata affidata alla legiferazione dei cosiddetti “collegati”, che non potranno essere varati prima dell’inizio del nuovo anno. Ciò significa che non c’è una data certa in cui le due misure diventeranno operative.

Ora, se i conti pubblici dovessero peggiorare nulla osta che il varo dei provvedimenti possa slittare in avanti di qualche mese. In tal caso, rispetto alle dotazioni assegnate con la legge di Bilancio, si realizzerebbe un risparmio da destinare all’ulteriore riduzione del Deficit. Adesso la palla passa nel campo nemico. Toccherà agli eurocrati decidere se sia o meno il caso, nella partita decisiva delle prossime elezioni europee, far giocare ai sovranisti italiani la carta del vittimismo. Non vi è dubbio che, messa in questi termini, la risposta italiana targata Salvini-Di Maio, sia una mossa tattica molto astuta: comunque decideranno i cani da guardia dei conti a Bruxelles, avranno vinto loro. Si obietterà: ma c’è lo spread che potrebbe rovinare la festa. L’aumento incontrollato del costo per il servizio del Debito potrebbe far saltare i conti e scatenare la crisi del settore bancario, mandato in affanno dalla svalutazione dei titoli del debito sovrano italiano sui quali si sostengono parte delle patrimonializzazioni degli istituti di credito. Certo è una possibilità, ma non è detto che si realizzi. A tale riguardo bisogna osservare i movimenti, come sempre discreti, che stanno caratterizzando la fase finale del mandato di Mario Draghi a governatore della Banca centrale europea. Il Quantitative easing chiuderà i battenti con la fine dell’anno, ma si fa strada la certezza che, nell’imminenza di un forte rallentamento della crescita nell’eurozona, l’Istituto di Francoforte non resti a guardare.

Come ci ha ricordato il quotidiano torinese La Stampa, “nei prossimi due anni vanno in scadenza più di 700 miliardi di euro di prestiti a lungo termine della Bce agli istituti di tutta Europa. Si tratta di quanto raccolto attraverso le aste “Tltro” (acronimo di Targeted Longer Term Refinancing Operations), prestiti a tassi bassissimi per garantire liquidità al sistema del credito, e di riflesso, al mondo delle imprese”. Dell’ammontare complessivo, 250 miliardi sono stati sottoscritti da grandi banche italiane, in testa Unicredit e Intesa San Paolo. Una tornata di rinnovo dei finanziamenti in scadenza a tassi prossimi allo zero rappresenterebbe per il sistema bancario italiano, maggiormente esposto alla pressione derivante dal rialzo dello spread, una decisiva valvola di sicurezza per tenere in linea l’andamento del credito alle famiglie e alle imprese a tassi sostenibili.

Allora, come giudicare l’attuale fase politica? Dobbiamo preoccuparci più del dovuto? Probabilmente ancora una volta ha avuto ragione l’immenso Ennio Flaiano nel dire che: “La situazione politica in Italia è grave ma non è seria”. Appunto, non è seria!

Aggiornato il 15 novembre 2018 alle ore 11:14