Ragionando sul M5S (più o meno)

A proposito di Beppe Grillo e del grillismo, all’opposizione prima e ora a Palazzo Chigi e propaggini di potere e poteri, se ne dicono e scrivono tante nel day-by-day giornalistico. Addio dunque alle parole del tempo che fu? Lasciamo in pace quell’antica sigla del “No” a tutto e tutti?

Abbandonare il consueto riassunto storico, magari reintroducendo il doppio tema dei buoni e dei cattivi. Ovvero: quando erano cattivi, quando buoni? Il fatto è che parlare dei grillini o del grillismo rifacendo il verso alle solite tiritere più o meno cronachistiche con la consueta narrazione del prima e del dopo, serve a poco. Anzi, serve proprio a loro, ai pentastellati. Meglio: servirebbe.

E tuttavia una ripresa del racconto di qualche anno (Il Foglio, 2014), non è del tutto inutile. Almeno dal punto di vista di un’analisi nella quale il come eravamo non può e non deve accontentarsi della critica, anche pesante. Dicevano, ai tempi d’oro della contestazione erga omnes: “Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno!”.

Era, e non poteva non esserlo, un proclama, un programma, una visione, una dichiarazione d’intenti (anti)politici con un’aggiunta (questa sì politica), per di più d’antan, detta apposta per rafforzare quella specie di diktat e intesa come qualifica per ora e per sempre del movimento: “Noi siamo completamente diversi dagli altri!”. Gli altri politici, o presunti tali. O meglio, la casta. Termine di complessa origine sul quale, peraltro, il mucchio selvaggio informativo si buttò. La casta, Grillo ne parlava quattro o cinque anni fa, non soltanto non era capace di gestire l’economia se non con buchi e latrocini, ma composta com’era e come è di cialtroni, non poteva che soccombere, finire in un bagno di sangue (il proprio) all’arrivo anzi all’ingresso dei soldati pentastellati nel Parlamento della Repubblica, una sorta di aula sorda e grigia (prima di loro). Dentro col 25 per cento. Sembra ieri, come si dice, quando un poco basita l’attenzione dei media osservava la conquista di Torino e di Roma oltre che il sorpasso pentastellato ai danni del Partito di Matteo Renzi, pardon del Partito Democratico, sullo sfondo del continuum di una campagna elettorale intesa e fatta come prima, durante e dopo

E dopo, l’ascesa al governo, l’ingresso nel Palazzo più Palazzo di tutti sotto braccio a quella Lega con la quale mai e poi mai, gridava il Big Boss e assicurava il cervello casaleggiano, avrebbero preso un caffè governativo, per dire. Appunto. L’ingresso a Palazzo Chigi è di per sé un freno se non uno stop alla mano per l’apriscatole del Parlamento, ma le parole d’ordine non sono cambiate e non cambiano, solo che restano ciò che erano e sono (e saranno): parole e per di più minacciose: no euro, no vax e scie chimiche ecc.. Sono come l’esclamazione di un virus: populismo, antipolitica, insulti a tutti gli altri, minacce ai dissenzienti interni, lotta senza quartiere alla casta. Quale? Quella degli altri. Loro sono diversi, eccome se lo sono. E la politica, la loro? Che dentro i suoi palazzi è sempre quella del fare, che fa? Poco, quasi niente.

Perciò il vero problema, a ben vedere, non è il virus o quel virus, che c’è sempre stato, più o meno. Ma sono gli anticorpi, che ci sono sempre meno.

Aggiornato il 15 novembre 2018 alle ore 12:52