Mafia: i magistrati “ciurlano nel manico?”

A distanza oramai di diversi giorni dalle cerimonie di apertura dell’anno giudiziario, credo sia tempo di formulare alcune considerazioni complessive che vadano oltre la cronaca superficiale dei discorsi tenuti in tali occasioni, giacché è arrivato il momento di un’analisi anche degli aspetti meno “di parata” di quegli eventi.

Una prima constatazione. Un intento unanime, più che un unanime giudizio, in tutti i discorsi dei magistrati delle circoscrizioni infestate dal fenomeno mafioso. Pare che tutti siano preoccupati di smentire che la mafia, dopo anni di “guerre” dichiarate contro il suo potere, le sue strutture ed i suoi uomini, dopo leggi speciali, dopo l’abbandono, per combatterla, dei principi fondamentarli di diritto e di giustizia dei Paesi liberi, dopo processi “monumentali” e, soprattutto, dopo l’“estensione” della lotta stessa antimafia per colpire complicità ed anche solo debolezze e “trattative” vere o presunte, abbia risentito di tutto ciò e sia entrata in una fase di declino del suo potere e del suo peso sulla società civile della Sicilia e di altre Regioni.

Ciò è evidente ancor più dopo i discorsi dei giorni scorsi, che i “Magistrati antimafia”, i capi degli uffici più fortemente coinvolti nel confronto con tale fenomeno, tengono un atteggiamento diametralmente opposto a quello dei condottieri di guerre, guerriglie, campagne e battaglie che solitamente tendono a valorizzare il risultato complessivo dei loro “combattimenti”, anche per coprire insuccessi parziali e locali, proclamando che il “nemico” ha subìto perdite tali da lasciar prevedere il suo imminente collasso.

I magistrati antimafia, al contrario, sembra temano più la vittoria del loro lavoro che la sconfitta e si affannano ad attestare che la mafia è forte, viva, vegeta come non mai, che i suoi affari prosperano ed il suo potere si espande e si rafforza. L’Antimafia, si sa, “rende”.

Tali dichiarazioni dovrebbero implicare il riconoscimento del fallimento di tutto il bagaglio delle normative speciali, adottate proclamando la necessità di “cambiare registro”. Niente affatto: essi vogliono che quegli strumenti, deleteri per lo Stato di diritto, siano rafforzati, intensificati e dilatati. E si sentono eroi di quello che essi vogliono sia una sconfitta.

La parola d’ordine dell’Antimafia ufficiale è: “La mafia è forte e non dà segno di indebolimento” ma, semmai, di incremento. La natura e l’estensione sociale del fenomeno mafioso sono tali che queste parole finiscono per rafforzare la convinzione, nelle popolazioni che soffrono il peso della mafia, la convinzione della impossibilità, e la sua convenienza di sottrarsi al potere, al “pizzo”, all’“autorità” mafiosa. Un bel servizio reso alla criminalità. Ma quel che è peggio è che tale “analisi” di sviluppo anziché di recessione del fenomeno mafioso, implica una incapacità di comprendere e considerare fenomeni che vanno oltre e si differenziamo dal semplice “incremento”, oppure “decremento” della mafia.

Dire che la mafia è finita sarebbe esagerato, anche perché a tenerla in piedi ci pensano questi esaltatori professionisti del suo potere. Ma, a ben vedere quella che viene presentata come “espansione” del fenomeno mafioso, la sua “occupazione” di altri settori di affari criminali sembra piuttosto “altra cosa”, o destinata a divenire altra cosa rispetto alla stessa mafia. Si direbbe che accanto a questa grande organizzazione di traffici di droga e di altri malanni, la mafia del “pizzo” di campagna e di quartiere sopravviva soprattutto perché è proibito pare, il “concorso esterno” consistente nel parlare della sua fine. La gente ha paura di questa mafia perché le stesse Autorità di fatto impongono il suo “rispetto”, perseguitandone, poi le manifestazioni. Ciò non è un’insana esagerazione. È la realtà assurda.

Ma c’è un altro aspetto delle dichiarazioni dei Magistrati antimafia (vedansi quelle di Francesco Lo Voi, Procuratore di Palermo), che dovrebbe mettere in rilievo un errore pesante nella prosecuzione della “lotta antimafiosa” con gli strumenti che esso è riuscito a farsi attribuire, ed è anche un’altra prova della natura dell’humus che oggi consente alla mafia tradizionale di sopravvivere alla sua sconfitta. Il caos dell’economia e la sua stagnazione provocata dalla fine della certezza dei diritti operata in nome dell’Antimafia. Lo Voi ha dichiarato che a Palermo sono state indagate 347 persone per essersi prestate ad intestazioni fittizie di beni per sfuggire a misure antimafia. Parla di persistenti tendenze al favoreggiamento. Ma dovrebbe parlare di ricaduta prevedibile della fine della certezza del diritto, delle persecuzioni, con misure anche di esproprio e di sequestro (distruttivo) in attesa del giudizio dei proprietari di beni e di imprese. La fine, quindi della certezza e della garanzia del diritto di proprietà. Ho scritto e sono tornato spesso a farlo, del disastro economico e sociale che tale misure sono capaci di provocare.

Tra i disastri c’è quello del “brodo di cultura” che una società così ridotta alla precarietà delle sue strutture giuridiche rappresenta per la sopravvivenza della mafia. Ecco dunque quello che, tra le molte chiacchiere dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è dato cogliere. E che non è il caso di far finta di ignorare.

Aggiornato il 31 gennaio 2019 alle ore 10:40