L’immunità ministeriale

L’immunità parlamentare riguardo ai processi penali fu abrogata nel 1993 iussu populi e, in base ad essa, l’autorizzazione a procedere era in sostanza una condizione di proseguibilità dell’azione penale. Se la Camera o il Senato negavano l’autorizzazione, l’azione penale veniva sospesa e riprendeva quando il deputato o senatore cessava dalla carica. In parole povere, il diniego “congelava” il procedimento penale durante il mandato parlamentare, alla scadenza del quale il deputato e il senatore ridiventavano cittadini comuni rispetto ai reati e ai processi.

Altra cosa è invece la vigente immunità ministeriale, riformata dalla legge costituzionale 1/1989 per motivi politici e giuridici.

Quanto ai primi, furono almeno tre: depoliticizzare il giudizio sui ministri; parificare quanto più possibile le posizioni dei membri del governo a quelle dei cittadini comuni; abolire un privilegio particolarmente odioso che a taluni pareva essersi trasformato in impunità.

Quanto ai secondi, furono almeno quattro: l’eterogeneità del giudizio sulle leggi e sugli uomini rendeva la Corte costituzionale, secondo molti, un giudice inidoneo a giudicare i ministri; il giudizio in unico grado per politici e laici violava il doppio grado di giurisdizione; la parzialità del giudice, considerato che ai quindici giudici costituzionali si aggiungevano i sedici laici; la Corte costituzionale doveva essere sollevata dagli impegni penali che intralciavano il sindacato delle leggi.

I cardini del sistema sono due, fissati dagli articoli 1 e 9 della legge suddetta: il presidente del Consiglio e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione della Camera o del Senato; l’Assemblea competente può, a maggioranza assoluta dei componenti, negare l’autorizzazione ove reputi, “con valutazione insindacabile”, che l’inquisito abbia agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”.

Se l’autorizzazione a procedere è concessa, la cognizione dei reati spetta al giudice ordinario, che non è il c.d. “tribunale dei ministri”, come la gente è malamente portata a credere da sprovveduti divulgatori, il quale non è il tribunale vero e proprio perché non possiede la funzione giudicante, bensì i poteri del pubblico ministero nelle indagini preliminari e i poteri del giudice delle indagini preliminari (Gip). Invece il giudizio spetta in primo grado al tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano le comuni norme del codice di procedura penale.

La natura del diniego dell’autorizzazione è controversa. Potrebbe essere considerato come una causa oggettiva di esclusione del reato oppure come una causa soggettiva di esenzione dalla pena, con differenti ripercussioni sull’azione civile per il risarcimento dei danni morali e materiali e sull’estensione automatica, ai coimputati eventuali, della causa di giustificazione del reato.

La discussione parlamentare della riforma fu incentrata sui due presupposti, sui due motivi di diniego, che per comodità espositiva chiamiamo esimenti, in senso atecnico. I contrari opposero tre argomenti: innanzitutto, le esimenti avrebbero finito per formalizzare, in una legge costituzionale così importante, la cosiddetta ragion di Stato. Inoltre, avrebbero contribuito alla protezione di abusi governativi. Infine, violerebbero lo Stato di diritto. I favorevoli replicarono che, senza tali presupposti, la discrezionalità parlamentare sarebbe scivolata fatalmente nell’arbitrium merum cioè nella totale libertà di scelta. Pertanto, definire le esimenti, serviva a restringere, non già ad allargare la potestà delle Camere di negare l’autorizzazione. E, in effetti, così è. Un acuto studioso osservò che la maggioranza assoluta qui serve a sottrarre il ministro al processo, non a sottoporvelo. Differenza di un certo peso. Fu detto nella discussione che “l’interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” farebbe riferimento a valori ed interessi scritti nella Costituzione o direttamente tutelati da norme costituzionali, mentre “il preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” richiamerebbe gli interessi pubblici non immediatamente contemplati in Costituzione, ma, evidentemente, tutelati in via indiretta.

La legge costituzionale stabilisce che la valutazione delle Camere circa i presupposti è insindacabile. Poiché pochi mesi prima, nel 1988, la Corte costituzionale aveva di fatto annullato, in sede di conflitto di attribuzioni, una deliberazione non legislativa di un ramo del Parlamento, il legislatore costituzionale volle affermare, chiaro e tondo, che la Camera competente è l’unico giudice, di fatto e di diritto, dell’esistenza dei presupposti. Tuttavia non mancano studiosi che reputano incostituzionale l’insindacabilità della valutazione parlamentare, mentre, secondo alcuni parlamentari, tale insindacabilità costituisce la riaffermazione della sovranità politica che, a determinate condizioni, può o deve poter sottrarre allo Stato di diritto la potestà d’imperio, sebbene possa apparire una reviviscenza della teoria e della pratica del governo illimitato.

Sulle complesse problematiche che sorgono per l’intreccio delle norme ordinarie e regolamentari sulle votazioni delle proposte delle competenti Giunte alle rispettive Assemblee mi permetto di rinviare al mio “Brevi note sulla riforma dei procedimenti d’accusa” (lectio in Senato della Repubblica, “Atti del 1° corso d’aggiornamento per i funzionari direttivi del Senato della Repubblica”, Roma, 1992, pag.87).

Aggiornato il 04 febbraio 2019 alle ore 11:46