Dirittismo e doverismo

venerdì 8 febbraio 2019


Lord Acton, uno dei padri, com’è ben noto, del liberalismo, tra le tante sue perle di saggezza ci ha lasciato anche questa straordinaria definizione, molto meno nota, della libertà: “La libertà non consiste nel potere di fare ciò che piace, ma nel diritto di essere in grado di fare ciò che dobbiamo”.

A tutti gl’intellettuali e no, che per ignoranza o faziosità o disprezzo descrivono i liberali e i liberisti alla stregua di sfrenati libertini politici ed economici, di selvaggi dominati da voracità insaziabile, predatorio egoismo, avidità di privilegi, insofferenza a vincoli e disciplina; a tali fantocci polemici agitati dai nemici della libertà, Lord Acton oppone, mediante un geniale aforisma, la profonda concezione dei veri liberali circa il rapporto tra diritti e doveri, cioè la veritiera etica della libertà. Chiunque si soffermasse a considerare i mali dell’Italia sbaglierebbe se non li attribuisse anche ai troppi diritti reclamati e ai molti doveri inadempiuti. Il nostro concittadino concepisce la libertà essenzialmente come rivendicazione per sé e per i meritevoli ai suoi occhi, cioè parenti, clienti, sodali, amici. Le manifestazioni sono fatte sempre per accampare dai “Loro” un asserito diritto o per respingerne una presunta violazione, mai per esigere dai “Nostri” il miglioramento delle prestazioni o l’assolvimento degli obblighi. Predomina una libertà pensata e praticata come rimostranza, reclamo, richiesta. Non come collaborazione, abnegazione, contributo. Nessuno sfila in corteo per i doveri da compiere e gl’impegni da rispettare.

Tre anni fa, scrivendo “L’ideologia italiana”, forgiai un neologismo che mi appare sempre più espressivo di questa mentalità e di questa condotta. Le assimilai a un’autentica dottrina popolare e le definii “dirittismo”, in base al quale “ogni pretesto legittima la pretesa di un diritto”. Non a caso, estraendo letteralmente il titolo da una citazione di Hannah Arendt, per altro di solo valore letterario, Stefano Rodotà, un giurista che i governanti di oggi avrebbero voluto a capo dello Stato, pubblicò il libro “Il diritto di avere diritti”: un capriccio velleitario, perché nessuno può sapere in cosa consista questo pseudo diritto.

Noi viviamo nell’epoca del dirittismo, la quale affonda le radici nelle teorie rivoluzionarie del socialismo ottocentesco e nella sua reviviscenza in forme carnevalesche, ma pure drammatiche, del rivoluzionarismo sessantottino novecentesco, nutrito di slogan del tipo: “Vogliamo tutto” e “La fantasia al potere”. Se vuoi tutto, vuol dire che respingi la stessa idea del limite, verso gli altri e verso le leggi, del quale è fatto il dovere. Se auspichi che la fantasia governi, dimostri di agognare il governo illimitato, senza alcun dovere. Tutta roba contraria alle fondamenta della società libera, che esecra l’assenza di limiti ferrei contro le restrizioni e le costrizioni di autorità e individui; basa l’equilibrio sociale sulla machiavelliana “verità effettuale” e, anziché alle pinocchiesche immaginazioni degli Acchiappacitrulli, crede nelle Api industriose. Se questo dirittismo non verrà bilanciato al più presto da quello che specularmente vorrei chiamare adesso “doverismo” degli individui, l’Italia continuerà a scivolare lungo la linea declinante dell’indebolimento progressivo, determinato da una “società reclamante” diritti formata da “individui disobbedienti” ai doveri, pur da essa medesima prescritti mediante leggi talvolta entusiasticamente deliberate. Il dirittismo, un’ideologia che ha permeato i partiti, i sindacati, le correnti culturali ed è oggi, esplicitamente, la più in voga, ricorda molto da vicino certi diritti collettivi e programmi politici nazisti e comunisti. Per esempio, l’articolo 7 del programma nazista del 1920 proclamava: “Lo Stato si impegna a procurare a tutti i cittadini i mezzi d’esistenza” e l’articolo 118 della Costituzione sovietica del 1947 stabiliva: “I cittadini hanno diritto al lavoro, cioè ad ottenere un lavoro garantito. Il diritto al lavoro è assicurato dall’organizzazione socialista dell’economia nazionale”. Sappiamo com’è andata a finire!

Tuttavia il dirittismo è un male antico della democrazia, che, o vi rimedia, o perisce soffocata dalla sua stessa linfa vitale. In un libro fondamentale sulla “polis”, Glotz scrive: “Parlando dell’adunanza in cui gli uomini politici si facevano decernere ogni sorta di onori, Eschine disse ‘se ne esce non come da assemblee deliberative ma come da riunioni di azionisti dopo la distribuzione dei profitti’. Sì, la Repubblica era diventata veramente un “éranos”, una società di mutuo soccorso, chiedendo gli uni i mezzi per provvedere al mantenimento degli altri. Per un capovolgimento singolare delle relazioni che in passato sembravano naturali, non più i cittadini dovevano adempiere i loro doveri filiali verso la Città, ma la città era tenuta ad osservare l’obbligo alimentare verso i cittadini”.

Quando il dovere trasloca dalla responsabilità individuale alla potestà statuale, per giunta senza limiti sostanziali nella finanza pubblica, l’etica della libertà boccheggia. Così si generano quelle disfunzioni della società, che una comune miopia è portata invece ad addebitare, ciecamente, a cause sbagliate anziché alla vera causa, il dirittismo.


di Pietro Di Muccio de Quattro