Previsioni fosche per l’Italia, la ripresa non decolla

“Gli esami non finiscono mai” è il fortunato titolo di una commedia in tre atti scritta e interpretata da Eduardo De Filippo. Ma potrebbe essere il minaccioso claim di un’Unione europea malata di “pagellite”. Non sono trascorse dieci settimane dalla chiusura del braccio di ferro tra la Commissione e il Governo giallo-blu per la bollinatura europea della finanziaria 2019, che è già pronto sulla rampa di lancio di Bruxelles l’ennesimo report sui conti pubblici nostrani. Il Country Report dedicato all’Italia sarà diffuso la prossima settimana, ma i media hanno dato le prime anticipazioni. Presto a dirsi: giudizio negativo. Le argomentazioni poste a sostegno della bocciatura non cambiano. Non piace quota 100 per le pensioni.

L’abbassamento dell’età pensionabile farebbe “aumentare la spesa pensionistica e peggiorare la sostenibilità del debito” e produrrebbe “effetti negativi sul potenziale di crescita”. Non va bene neanche la Flat tax perché si risolverebbe in un paradosso: la diminuzione delle imposte sui lavoratori autonomi sarebbe compensata dall’aumento delle tasse aggregate per le imprese. Voto negativo preventivo sul Reddito di cittadinanza giacché, come si ammette nel report, una valutazione complessiva d’impatto sui conti pubblici potrà essere fatta soltanto dopo l’implementazione della misura. E il debito pubblico? Non potrà che lievitare oltre la soglia di sostenibilità del 132 per cento nel rapporto col Prodotto interno lordo. Insomma, a giudizio degli esaminatori la politica economica del Governo giallo-blu dura minga. Una correzione dei conti con una finanziaria-bis in primavera sarà inevitabile. Niente chiaroscuri, il report è una tela dipinta col nero di china. Sembra scritto apposta per solleticare i mercati a darsela a gambe dai titoli del Debito sovrano italiano. Che poi significa più spread e più interessi da pagare.

Ora, non è che si possa pretendere un occhio di riguardo visto che la Commissione gli occhi e gli altri organi sensoriali da tempo li ha impegnati per favorire e proteggere Stati ed economie amiche del modello burocratico/centralista dell’Unione, tuttavia una maggiore imparzialità non guasterebbe. Anche un bambino lo capirebbe, è in corso una guerra sotterranea contro l’Italia che si è data ai populisti. Alla vigilia delle europee, la tentazione di bastonare il nemico sovranista che alligna nei palazzi della politica romana è fortissima. Si vede che a Bruxelles hanno letto con attenzione le massime di Mao Tzedong, in particolare quella che recita: “colpirne uno per educarne cento”.  Detto ciò, è bene essere chiari su un punto. La partigianeria smaccata con cui i vertici dell’Unione trattano il rapporto con il Governo italiano non funziona in alcun modo da giustificazione ai ritardi che l’azione di governo sta accumulando nella fase d’implementazione delle misure di rilancio della crescita. Alle cassandre di turno che godono nell’annunciare disastri prossimi venturi e agli avversari che lavorano a infilare bastoni tra gli ingranaggi della maggioranza parlamentare nella speranza che salti, la risposta non è quella di piangersi addosso ma di tirare dritto a fare ciò che si è promesso. Il quadro che emerge dalla rilevazione dell’Istat sull’andamento del fatturato dell’industria a dicembre del 2018 non induce all’ottimismo. Le cose vanno male.

Il calo congiunturale del fatturato ha riguardato sia il mercato interno sia quello estero. In coda del 2018 tutti i raggruppamenti principali d’imprese hanno segnato una variazione congiunturale in negativo: -1,8% i beni di consumo, -5,5% i beni strumentali, -1,7% i beni intermedi e -9,7% l’energia. Il tendenziale, con la comparazione ai dati del 2017, è da brivido: -7,3per cento complessivo, con un calo del 7,5per cento sul mercato interno e del 7,0per cento su quello estero. Il tallone d’Achille della nostra produzione industriale resta il comparto dell’automotive con una diminuzione sul tendenziale pari al 23,6 per cento. In caduta anche i fatturati dell’industria farmaceutica (-13,0%) e dell’industria chimica (-8,5%). Ma questo è il passato, condizionato sensibilmente dalla frenata del commercio globale. Riconoscere il male comune, però, non può essere appagato da un mezzo gaudio. Che vadano in crisi gli altri non deve costituire il pretesto per abbandonare le sfide che il Paese ha davanti. Rispetto ai molti punti di vulnerabilità del nostro sistema economico, l’impianto dei conti pubblici poggia su solidi  fondamentali. Ora, l’asso nella manica che resta da giocare è la ripresa degli investimenti pubblici. Si tratta di cantieri finanziati con decine di miliardi di euro che da decenni attendono di essere riavviati. Cosa si aspetta a partire? Il punto di snodo sulle infrastrutture è la guerra che va combattuta e vinta contro la burocrazia. I grillini pensavano di risolverla con una bizzarra equazione pauperista: niente opere pubbliche, niente arroccamenti burocratici.

Adesso, però, che il terreno comincia a bruciargli sotto i piedi, si stanno accorgendo che continuare a bloccare gli investimenti equivale alla fine prematura del rapporto con la Lega e alla chiusura della loro esperienza al potere. Pensare di continuare a fare melina con la scusa che per aggiustare un ponte o rifare una strada si debba attendere la fantomatica analisi costi-benefici li porterà dritti a sbattere con sommo gaudio delle opposizioni che non aspettano altro. Se si è deciso di prendere tempo sulla questione della Tav Torino-Lione, almeno fino a dopo le elezioni europee perché il Cinque Stelle non reggerebbe l’ennesimo dietrofront rispetto alle promesse fatte all’elettorato, sta bene. Ma si riparta con tutto il resto. Aprire oggi i cantieri è l’unico modo per riportare in territorio positivo l’indice di crescita del Pil, già dal secondo semestre del 2019. In alternativa, per sfangare l’onda recessiva non resta che chiedere la grazia a San Gennaro.

Aggiornato il 23 febbraio 2019 alle ore 11:49