L’Europa di Michelaccio

Da molto tempo, con diverse sfumature nella retorica, gran parte del teatrino della politica italiana converge sull’idea molto generica di cambiare l’Europa.

Ora, con l’approssimarsi delle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea di Strasburgo, sta riprendendo con forza nel nostro asfittico dibattito pubblico questa presunta propensione al cambiamento su scala continentale. Ognuno la racconta ovviamente a modo proprio, in un mare magnum di impegni e prese di posizione, tra anatemi contro gli euroburocrati che pretenderebbero di regolamentare la curvatura delle banane e altisonanti richiami di natura poetico-letteraria al concetto sublime di una Europa unita nei valori fondativi. Tra chi promette di rivoluzionarla come un calzino, ad esempio la Lega di Matteo Salvini, e chi si limita invece ad impegnarsi per una Europa moderatamente diversa, come ripetono da sempre gli esponenti del Partito Democratico, praticamente tutti, a parte l’eroica ridotta di +Europa, si schierano in una posizione critica nei riguardi dell’attuale architettura comunitaria.

Naturalmente nel bailamme di grandi ideali portati avanti a chiacchiere e pura demagogia all’ingrosso, il cittadino medio fatica a tradurre in termini concreti la natura del contendere. Egli, dopo anni di anti-europeismo più o meno strisciante propinato soprattutto da chi occupava la stanza dei bottoni, ha sostanzialmente compreso un concetto basilare: il sistema politico italiano nel suo complesso si pone nei confronti dell’Ue in una relazione programmatica di natura parassitaria. Ossia, senza esplicitarlo in termini diretti, chi più e chi meno, si vorrebbe utilizzare la Comunità come strumento per tenere in equilibrio i nostri perennemente dissestati conti pubblici. Da qui tutta una ridda di proposte ad hoc, fondamentalmente finalizzate a mutualizzare l’italica inclinazione alle spese elettorali in eccesso, come i chimerici eurobond o una Banca centrale europea ridotta al ruolo di prestatrice di ultima istanza, seguendo l’esempio catastrofico della Banca d’Italia degli anni ruggenti della cosiddetta Prima Repubblica, quando l’istituzione di Palazzo Koch comprava titoli sul mercato primario, ricoprendo il Tesoro con moneta inflazionata.

In pratica, per dirla con una battuta, si vorrebbe “cambiare” l’Europa nel senso di potervi caricare sopra i costi di una certa italica propensione al famoso mestiere di Michelaccio, che in soldoni si manifesta nella magnifica attitudine a mangiare, bere e andare a spasso. Solo che, ciò soprattutto a beneficio dei nostri due partiti al Governo, i quali contano su un ribaltamento degli attuali equilibri politici all’interno dell’Ue, se per avventura le forza sovran-populiste dovessero conseguire un grande successo il 26 maggio prossimo, sarà molto difficile che costoro consentano all’Italia di trasformare la Comunità in una specie di Bengodi in cui i più furbi, che si presume saremmo noi, spendono e spandono e gli altri pagano il conto. Anzi, si ha l’idea che su questo piano la maggioranza dei partiti europei che si pongono in una linea antagonista rispetto al vecchio sistema siano molto più rigoristi del re, per così dire. Altro che chiacchiere.

Aggiornato il 19 aprile 2019 alle ore 11:44