I giorni della politica e le ore della verità

Non viviamo giorni ordinari. La politica si mostra inquieta, non solo a casa nostra. C’è un’Europa in fibrillazione che le élite al potere si ostinano a ignorare. Sbagliano le classi dirigenti a trattenere la testa sotto la sabbia sperando che il vento del cambiamento le risparmi. Una razza padrona europea, formatasi negli anni di Maastricht e nel sogno di porre il continente sotto la giurisdizione esclusiva di un regolatore giuridico ed economico sovraordinato agli Stati nazionali, sta fallendo inesorabilmente.

Il sole dell’avvenire della globalizzazione, che avrebbe dovuto redimere dal bisogno masse sconfinate di individui, si è rapidamente trasformato in un dio distruttore i cui raggi nocivi, in nome dell’utopia liberista-mercatista, hanno bruciato vite, economie, comunità, storie, saperi, identità. Di norma, i fenomeni sociali a più ampio spettro prima si manifestano mostrando i propri potenziali effetti e poi vengono metabolizzati all’interno delle istituzioni politiche. Il prossimo 26 maggio i cittadini dell’Unione europea si recheranno alle urne per rinnovare il Parlamento europeo. Saranno maturi i tempi per una rotazione paretiana delle élite in senso populista? I segnali sono incerti ma vanno nella medesima direzione.

Si guardi all’Italia, mancano poco più di trenta giorni al voto e la partita elettorale è ridotta a una resa dei conti tra le differenti declinazioni del populismo: versione Lega sovranista e tendenza eclettica/Melting pot Cinque Stelle. E le forze europeiste di sinistra e quelle moderate? Tacciono o non dicono nulla di decisivo per spingere l’elettorato a volgere lo sguardo verso di loro. Sinistra e moderati di destra vivono il medesimo dramma. Dopo aver condizionato la seconda metà del secolo scorso, oggi si mostrano privi di argomenti, di soluzioni e, ciò che è peggio, di visioni sostenibili del futuro della civiltà occidentale. La loro inadeguatezza a leggere il presente con lenti critiche, e non autoassolutorie, è palese. Oltre confine il quadro non è dissimile. I più recenti passaggi elettorali lo dimostrano.

In Finlandia, il partito di destra dei “Veri finlandesi”, in Europa alleato della Lega di Matteo Salvini, ha sfiorato di un soffio la conquista della maggioranza relativa in Parlamento con uno straordinario 17,5 per cento di consensi, secondo solo al Partito socialdemocratico che ha ottenuto uno 0,2 in più.

In Francia, nonostante l’establishment tenga alto il sostegno al presidente Emmanuel Macron, europeista a intermittenza, la contestazione dei gilet gialli non cala di tono, mentre la leader del “Rassemblement National”, Marine Le Pen, continua a lavorare ai fianchi gli sfibrati neo-gollisti de “Les Républicains”.

In Spagna si voterà la prossima domenica per il rinnovo del Parlamento. I sondaggi dicono che il Partito socialista spagnolo (Psoe) tiene, a discapito dei moderati del “Partido Popular”. Anche la sinistra di “Podemos” perde quota e i liberali ultra-europeisti di “Ciudadanos” arretrano, anche se di poco. Ma la sorpresa sarà “Vox”, il movimento di estrema destra, nazionalista ed euroscettico, che dopo la sua comparsa sulla scena nazionale sta rapidamente salendo nei consensi degli spagnoli.

Nell’avanzatissima Svezia, a settembre dello scorso anno, il voto per il Parlamento nazionale, sebbene abbia visto la vittoria dei socialdemocratici, è stato caratterizzato dall’exploit dei “Democratici svedesi”, movimento ultra-conservatore, euroscettico, consolidatosi terzo partito appena alle spalle del Partito moderato.

Poi c’è la vicenda ucraina che è paradigmatica. Si dirà: l’Ucraina non è nell’Unione europea. Tuttavia, aiuta a sentire il vento dell’Est. Al ballottaggio, lo sfidante Volodimir Zelenskij ha sconfitto di larga misura il presidente uscente Petro Poroshenko. Il risultato, che ha fatto storcere il naso a parecchi in Europa, è clamoroso. Zelenskij non è un politico ma un comico di professione, assolutamente inesperto nell’amministrazione della cosa pubblica. Ha vinto parlando alla sua gente di lotta alla corruzione e al potere degli oligarchi che hanno affamato il Paese. La sua affermazione farebbe pensare a una forte somiglianza con l’epopea italiana di Beppe Grillo e dei suoi Cinque Stelle. Zelenskij, come i grillini della prima ora, presenta il classico “vasto programma” che nella realtà si traduce nella mancanza di chiarezza d’idee sul da farsi. Ma alla gente questo non importa, lo ha votato ugualmente solo per la promessa che ha fatto alla nazione di liberarsi dal giogo degli oligarchi che tengono in pugno l’Ucraina. A ben vedere, però, i punti di contatto tra la storia dei Cinque Stelle e l’attualità del nuovo “servitore del popolo” ucraino non sono sufficienti a etichettare tale exploit come una riedizione a est del fenomeno parossistico italiano. Zelenskij è oltre il Grillo contestatore e incarognito che costruisce negli anni la sua alternativa al sistema. Per stare agli accostamenti cinematografici, è il Claudio Bisio di “Benvenuto Presidente!”.

Ora, se si continua a non comprendere quanto grande sia la frattura tra le élite eurocratiche/globaliste e il popolo minuto che abita il continente, non si riuscirà ad avere per tempo contezza dell’intensità dell’onda sismica che rischia di travolgere le istituzioni politiche dell’Unione. Per molti opinionisti un avanzamento elettorale, ancorché numericamente significativo dei movimenti populisti, non basterebbe a smuovere equilibri di potere consolidati, per altri un terremoto politico di ampiezza europea potrebbe essere addirittura salutare. Alla fine della fiera, in democrazia valgono i voti. Quelli del prossimo 26 maggio li si dovrà analizzare con attenzione, alla stregua dei fondi di caffe posati in una tazza, per leggervi il futuro. Visto che è di destino di una civiltà che si parla anche improvvisarsi oracoli non guasterebbe.

Aggiornato il 24 aprile 2019 alle ore 11:16