Giovanni Falcone, perché il ricordo diventi memoria, e storia da opporre alle storie

 

 

C’è la storia; poi c’è la vera storia; poi c’è la storia di come è raccontata la storia; poi c’è quello che lasci fuori della storia. Anche questo fa parte della storia. Ha ragione, centra perfettamente la questione, Margaret Atwood. Tra qualche giorno accadrà anche per la strage di Capaci.

Il 23 maggio del 1992 Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, vengono massacrati all’altezza di Capaci. Accade spesso: prima vieni “chiacchierato”, poi ti rimproverano di essere “chiacchierato”; alla fine, quando le “chiacchiere” stanno a zero, ecco che tutto si fa più facile: tutto quel “chiacchiericcio” ha ottenuto il risultato di isolarti. È più facile colpirti.

Falcone i mafiosi li capisce bene. La sua formazione umana e di magistrato lo mette in condizione di comprendere quali trasformazioni segnano l’universo mafioso nella fase della “modernizzazione”, la mafia “urbana” che gestisce i traffici illeciti legati al traffico della droga, e sostituito la mafia “rurale”. Per questo ucciderlo non è solo l’irreparabile interruzione di una vita umana; è cancellare una memoria storica, un “sapere”, un saper capire: l’interpretazione di un gesto, di una parola, di un silenzio.

Qualche ora dopo il “botto” vado a trovare e Giuseppe Ayala, che lavora nel pool antimafia di Falcone. Con Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta, Peppino Di Lello, Pietro Grasso, fa parte del “cerchio” ristretto. Da Roma ha preso il primo aereo per Palermo, poi si è chiuso nel piccolo residence sorvegliatissimo dove vive, quando “scende” in Sicilia. Lo trovo stravolto, non ha chiuso occhio tutta la notte. Indica una bottiglia di whisky semi-vuota. Ci ha provato, a stordirsi, senza risultato. “Per la modalità con cui è stato eseguito, all’attentato è stato affidato un significato politico che deve essere raccolto”. E poi il fiume dei ricordi: “L’ultima volta che l’ho incontrato è stato domenica scorsa. Ci siamo visti a cena, per festeggiare i nostri compleanni. Con lui c’era anche sua moglie. Abbiamo conversato a lungo, mi ha rimproverato perché non mi facevo sentire da qualche tempo”.

Ricordate Ilda Bocassini la “rossa”? Si commemora a Palazzo di Giustizia di Milano Falcone, lei prende la parola. Un intervento duro, spigoloso, come il personaggio. “Non tutti”, sibila, “hanno il diritto di piangerlo”. E guarda fisso negli occhi i suoi colleghi. Di fatto li accusa, come contemporaneamente fa Francesco Misiani a Roma.

Un passo indietro, 21 giugno 1989: sugli scogli davanti a una villa sull’Addaura, affittata per trascorrere qualche giorno di vacanza, si scopre una borsa imbottita di tritolo. Falcone è assieme a due colleghi svizzeri; l’attentato è fissato per il giorno prima, ma Falcone improvvisamente cambia programma. Lo sanno pochissime persone. Tra i pochissimi, anche chi ordina di mettere quel borsone. Un attentato, di Cosa Nostra, ma non solo: concepito, dice Falcone, da “menti raffinatissime”. Frase suggestiva, che spesso sarà ripetuta a sproposito. Ma detta da Falcone assume significato univoco, e chiarissimo. Quella mattina sulla spiaggia dell’Addaura sembra che a fronteggiarsi ci siano due gruppi: uno a terra, composto da mafiosi dell’Acquasanta e, si dice, da agenti dei Servizi segreti. L’altro gruppo è in mare: un canotto con un paio di finti sommozzatori che hanno il compito di neutralizzare l’attentato che si prepara, e impedire che il tritolo sia fatto esplodere. I due sub hanno un nome: Antonino Agostino, ucciso non si è mai saputo da chi, assieme alla moglie; ed Emanuele Piazza, strangolato e il corpo fatto sparire nell’acido l’anno dopo. Sia Agostino che Piazza erano specializzati nella caccia ai mafiosi latitanti.

A lungo si insinuerà che l’attentato lo ha organizzato lo stesso Falcone, per farsi pubblicità. Ricordiamolo. L’insinuazione non la fanno Totò Riina, Bernardo Provenzano o gli altri macellai di Cosa Nostra; gira nei salotti bene di Palermo, nei “santuari” dei poteri reali e concreti. Tommaso Buscetta, quando decide di “pentirsi” e raccontare le sue verità, a Falcone dice: “Dottore, l’avverto: cercheranno di distruggerla, fisicamente e professionalmente. Il conto che apre con Cosa Nostra non si chiuderà mai”.

Cosa Nostra aspetta. E uccide: fa il vuoto attorno a Falcone. Cade Beppe Montana, capo della sezione latitanti; cade Ninni Cassarà, vice-dirigente della squadra mobile... Per paura di nuovi attentati Falcone, Paolo Borsellino e le famiglie vengono trasferiti all’Asinara. Lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole, concludono l’istruttoria del maxiprocesso. Alla fine lo Stato non ha pudore a presentare il conto: 415mila e 800 lire a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno.

Il maxiprocesso si conclude con 360 condanne. Quando il capo dell’Ufficio istruzione di Palermo Antonino Caponnetto considera finita la sua missione e va in pensione, sembra naturale che al suo posto sia nominato Falcone. La maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura fa valere il criterio dell’anzianità e non della competenza, e nomina Antonino Meli, magistrato con scarsa esperienza di mafia. A favore di Meli, e contro Falcone, votano anche due dei tre componenti eletti nelle liste di Magistratura Democratica. Quasi nessuno lo ricorda. Meli smantella il pool, teorizza che tutti si devono occupare di tutto. Falcone si deve occupare di indagini su scippi, borseggi, assegni a vuoto. Borsellino si ribella, rilascia interviste, lancia accuse di fuoco. Finisce a sua volta sul banco degli accusati, deve difendersi dinanzi al Csm.

Falcone è sempre più solo. Si candida ad Alto Commissario per la lotta antimafia, viene bocciato. Si candida al Csm, i suoi colleghi lo bocciano. È la stagione delle lettere anonime del “corvo”: scrive che gestisce in modo discutibile e disinvolto il “pentito” Salvatore Contorno. Il culmine si raggiunge quando il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, e altri leader della Rete, lo accusano di insabbiare la verità sui delitti eccellenti. È costretto a una umiliante difesa al Csm. Alla fine accetta la proposta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di andare a dirigere gli Affari Penali a Roma. Lo accusano di “diserzione”. Di esser venduto a Pannella, perché con lui condivide la necessità della responsabilità civile dei magistrati, della separazione delle carriere, del superamento del vincolo dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Infine la Procura nazionale antimafia: nasce da un’idea dello stesso Falcone, un organismo con il compito di coordinare le inchieste contro Cosa Nostra. Lui è il naturale candidato; il Csm lo boccia ancora una volta. Gli viene preferito Agostino Cordova. È procuratore capo di Palmi, uno di quei magistrati che ha firmato un documento, con altre decine di colleghi; la procura antimafia viene indicata come un pericolo per l’operato e l’indipendenza dei magistrati. Alessandro Pizzorusso, componente “laico” del Csm designato dall’allora Pci, firma su “L’Unità” un articolo che grida vendetta: in pratica si dice che Falcone non è affidabile, sarebbe “governativo”, avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza.

Quando, il 23 maggio viene ucciso, anche Borsellino, l’amico di sempre capisce che anche per lui il tempo è scaduto. Rivela: “So che è arrivato il tritolo per me”. A due colleghi magistrati confida, in lacrime: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”.

Questa, nella sua essenza, la storia. Ora arriveranno le storie, il meccanismo descritto da Atwood. Procomberà chi non c’era: ci spiegherà, come già ci ha spiegato, il come, il quando, il chi, il perché. Non c’era. Quell’aria, in quei giorni delle stragi di Dalla Chiesa e di Falcone, di Borsellino e delle altre, non le ha respirate. Non ha visto quei corpi devastati, quegli sguardi smarriti, le bestemmie e le invettive. Non c’era, ma dice di sapere; e ora ci spiega, racconta fin nei dettagli. I particolari che ignoriamo, le spiegazioni. Conosce. Forse, magari, è davvero convinto di sapere. E sommessamente ti dici: quanto ci manca Leonardo Sciascia, quel suo “I professionisti dell’antimafia” così attuale, pre/veggente, così capace di vedere e capire in anticipo quello che accade, è accaduto...

Aggiornato il 17 maggio 2019 alle ore 19:07