Di Maio, i grillini e l’Impero del Sol levante

Arrivati a questo punto della campagna elettorale è difficile dire cosa verrà fuori dalle urne la notte di domenica prossima.

Il successo a valanga della Lega, dato per scontato fino a qualche settimana fa, potrebbe non essere più tale. Almeno due fattori sono intervenuti a guastare la festa a Matteo Salvini. Il primo è stato il prevedibile intervento a gamba tesa in campagna elettorale dell’ala della magistratura interessata a influenzare la politica. A dispetto della separazione liberale dei poteri dello Stato, da un quarto di secolo in Italia il braccio giudiziario è tracimato dall’alveo delle competenze assegnategli dalla Costituzione e dall’Ordinamento giuridico. L’attivismo delle toghe si concretizza in un modus agendi che, muovendosi sul filo della liceità grazie ad un’elastica interpretazione delle leggi vigenti, permette ad alcuni magistrati di interferire sull’esito dei confronti partitici in corso.

Tanto per essere chiari, nessuna norma giuridica viene violata apertamente perché non sta scritto da nessuna parte che un’indagine o un procedimento penale debbano rispettare i tempi della politica e che i giudici siano tenuti a non indagare esponenti dei partiti in prossimità di scadenza elettorali. Tuttavia, anche un cieco vedrebbe la connessione più che casuale fra pubblicizzazione dell’azione penale e chiamata alle urne dei cittadini. Da ciò si ricava che se la parte “interventista” della magistratura ha stabilito che una vittoria larga della Lega metta a rischio gli equilibri di potere in essere, tranquilli che l’annunciato jackpot per Salvini la notte del 26 non ci sarà.

Il secondo fattore che è intervenuto a contrastare l’avanzata leghista è il comportamento autolesionista dei Cinque Stelle. A prima vista è sembrato arduo trovare una giusta collocazione all’operato dei pentastellati. Poi, libri di storia alla mano, un parallelismo si è stabilito con la storia dei kamikaze giapponesi alla fine del secondo conflitto mondiale. Come nel 1944 in Estremo Oriente anche nell’odierna scena politica italiana c’è un esercito in rotta, il Movimento Cinque Stelle. Tramontate le giornate di gloria elettorale, per i grillini si andava preparando la sconfitta contro il nemico impersonato dall’alleato leghista. A corto di munizioni e con un assedio sempre più stringente intorno ai propri capisaldi - dal no alla Tav Torino-Lione, al “vedremo” sulle grandi opere, al “forse” all’autonomia differenziata, al “sì, però” alla Flat tax e al Decreto sicurezza bis - gli Alti comandi dell’esercito pentastellato, mettendosi di traverso ad ogni iniziativa leghista, hanno optato per il suicidio politico con l’effetto di provocare la paralisi dell’azione di governo. Non contenti, i manipoli grillini hanno cominciato a fare l’opposizione di sinistra a se stessi, in particolare sul tema sensibile del controllo dell’immigrazione clandestina pur di resistere alla forza centripeta del buco nero leghista.

D’altro canto, se la vittoria grillina alle politiche del 4 marzo dell’anno scorso poteva considerarsi la “Pearl Harbour giapponese” dei Cinque Stelle, dopo le sconfitte a raffica alle regionali in Molise, in Trentino Alto-Adige, in Friuli-Venezia Giulia, in Abruzzo, in Sardegna e in Basilicata, nell’immaginario grillino si è affacciato l’incubo che le urne del prossimo 26 di maggio potessero trasformarsi nell’Okinawa pentastellata. Luigi Di Maio sa bene che la situazione dopo il 26 potrebbe deflagrare, le continue aggressioni all’alleato potrebbero determinare la repentina fine dell’esperienza giallo-blu, ma la morale del perfetto combattente grillino gli impone di puntare a trascinare il nemico nell’abisso piuttosto che salvare se stesso. Analogamente ai comandi giapponesi nella primavera del 1945, i capi grillini puntano, attraverso il contenimento del successo elettorale di Salvini, ad un onorevole armistizio che salvi il Governo in carica e consenta di limitare le perdite in termini di potere e di poltrone governative. Ma potrebbe trattarsi di una speranza illusoria che non riuscirà ad impedire la capitolazione dei pentastellati e una dolorosa resa senza condizioni al vincitore.

Sul fronte opposto, i ben informati sussurrano dell’esistenza di un “Piano A” leghista pronto a scattare all’indomani dell’eventuale trionfo alle Europee: elezioni anticipate e formazione del blocco sovranista Lega-Fratelli d’Italia, con l’esclusione selettiva di ciò che resterà a galla della scialuppa berlusconiana di Forza Italia. L’asticella sarebbe stata fissata da Salvini a quota 30 per cento. Se viene superata, scatta l’operazione auto-affondamento del Governo giallo-blu. Diversamente, si tornerebbe allo status quo col pretesto tutt’altro che infondato che non esiste nella legislatura in corso alternativa alla maggioranza Lega-Cinque Stelle. Salvo a non ritenere praticabile un’ipotesi del terzo tipo: allargamento della maggioranza attuale all’apporto di Fratelli d’Italia per superare lo stallo alla messicana nel quale finirebbe la politica italiana all’indomani delle Europee se la differenza di voti tra le componenti dell’attuale maggioranza e il principale partito della sinistra, oggi all’opposizione, non desse alcun vincitore.

Ora, immaginate la scena. Alba di domenica 26 maggio. In un anonimo appartamento della Capitale, un giovane politico saluta l’ultimo sole nascente cingendosi la fronte con l’hachimaki, simbolo di onore, impegno e perseveranza del combattente, sul quale è dipinto il seguente ideogramma: “Meglio finirla qui che tornare a fare il disoccupato a Pomigliano d’Arco”. Banzai! signor Di Maio.

Aggiornato il 23 maggio 2019 alle ore 10:20