Strage Capaci: se Bruto pontifica sulla tomba di Cesare

Si fa un gran parlare di unità del Paese nel celebrare i suoi uomini migliori, ma per lo più si tratta di inutile, vuota retorica. L’Italia continua ad essere attraversata dall’odio, che trova spiegazioni nell’antropologia, di una parte della società verso chiunque non si allinei al suo pensiero morale. Esiste un’Italia del “Bene” che vede in ogni avversario un nemico irredimibile. La sua filosofia è una miscela ben combinata di arroganza ideologica e giustizialismo a sfondo moralistico. Tra i campioni di questa sedicente Italia migliore, spicca la figura del sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Con le sue prese di posizione ad effetto non manca mai di farsi notare.

Ieri a Palermo, nel giorno della commemorazione ufficiale del 27esimo anniversario della strage di Capaci, nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la sua consorte Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, il sindaco di Palermo ha pensato bene di lasciare anzitempo l’aula-bunker dell’Ucciardone, dove si sarebbe svolta la cerimonia, per non assistere all’arrivo del Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Una gravissima violazione del protocollo istituzionale che cela una visione politica assolutamente negativa. Nel luogo dove si elaborava il lutto di una nazione, Orlando doveva starci da sindaco ad accogliere non un politico qualsiasi ma un rappresentante del Governo. Il suo gesto non è l’insulto alla persona di Salvini ma un modo vile, odioso di rimarcare il fatto che, a suo avviso, esistano due “Italie”, una giusta, multiculturalista, di sinistra, progressista di cui lui, Orlando, sarebbe parte e un’altra malvagia, che respinge gli immigrati clandestini e va a braccetto con la malavita, impersonata dall’uomo venuto da Roma. Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Della fuga del sindaco dalla commemorazione di sicuro non avrà sofferto l’anima immortale di Giovanni Falcone, il quale da vivo aveva fatto il callo agli attacchi proditori del suo conterraneo. Già, perché il primo a tentare di crocifiggere Giovanni Falcone fu proprio la stessa persona che oggi, col suo comportamento, pretende di scrivere la lista di chi avrebbe o non avrebbe il diritto a pregare sulla tomba dell’eroico magistrato. Giusto per rinfrescare la memoria. Nell’agosto del 1989 il mafioso Giuseppe Pellegritti comincia a collaborare con i magistrati. Il pentito confida agli inquirenti di sapere molte cose, in particolare sul ruolo di Salvo Lima - politico siciliano della Democrazia Cristiana, legato a Giulio Andreotti - negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Falcone lo interroga il 17 agosto, ma subito si rende conto che il collaborante non è attendibile, al punto che il 4 ottobre firma un mandato di cattura a carico dello stesso Pellegritti con l’accusa di calunnia continuata. Ma contro Giovanni Falcone si scatena la truppa dei “professionisti dell’antimafia”, per evocare il titolo di un celebre scritto di Leonardo Sciascia per il Corriere della Sera del 10 gennaio 1987. Ed è nell’udienza televisiva del Tribunale del Popolo, la trasmissione “Samarcanda” condotta da Michele Santoro sulla terza rete, nella puntata del 24 maggio 1990, che proprio Leoluca Orlando, vestita la toga di pubblico accusatore, lancia l’accusa contro il pool dei magistrati antimafia di Palermo di tenere “chiuso dentro il cassetto” il dossier sui mandanti occulti di alcuni omicidi eccellenti compiuti a Palermo. In effetti, il cassetto sarebbe un armadio con otto scatoloni sigillati contenenti atti d’indagine lasciati in eredità al pool dal giudice Rocco Chinnici. Parte un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura contro Giovanni Falcone firmato, tra gli altri, dal sindaco Leoluca Orlando e correlato da un esposto dell’avvocato Giuseppe Zupo, legale di parte civile della famiglia del giudice Costa. Un colpo durissimo all’immagine e all’onorabilità di un magistrato che la lotta alla mafia l’aveva condotta con grande efficacia e intelligenza investigativa. Per Falcone, che “non vuole confondere le indagini della magistratura nella guerra santa alla mafia” sono giorni infausti. Orlando continua ad accusarlo di essersi fermato nella lotta al crimine organizzato. Interviene il presidente della Repubblica Francesco Cossiga con una lettera inviata il 16 agosto 1991 all’allora Guardasigilli, Claudio Martelli, perché sulla “già nota teoria di Orlando”, “venga aperta un’inchiesta affidata all’autorità giudiziaria al di fuori della Sicilia”( n.191/91 R.R.). Inizia il calvario di Falcone che deve presentarsi davanti alla Prima Commissione referente del Consiglio Superiore della Magistratura presieduta dal giudice Luciano Santoro, che indaga sul suo operato. Ma Falcone è un osso duro e tiene il punto contro gli accusatori definendo le accuse di Orlando: “ eresie, insinuazioni... un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario”. In un’udienza riservata del 15 ottobre 1991, Falcone dichiara a verbale: “Non esistono vertici politici che possono orientare in qualche modo la politica di Cosa nostra. È vero esattamente il contrario. Credo di averlo dimostrato in più occasioni. Il terzo livello, inteso quale direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria, ecc., e che sia quello che orienta Cosa nostra, vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica” (Verbale n. 61, pag. 73. Sito on-line Csm - sezione “Le tensioni nella vita professionale di Giovanni Falcone”, doc. all. n.6). Per Falcone, Orlando è un giuda che non sa neppure cercare gli scheletri nell’armadio di casa sua. Il Settimanale Panorama, nell’articolo “Quei cazzotti a Falcone” a firma di Anna Germoni riporta l’amara confessione del magistrato resa a verbale (n. 61, pag. 87): “...Quando nel corso di una polemica vivacissima fra Orlando e altri, una giornalista mi chiese che cosa pensassi di Orlando, io ho detto “ma cosa vuole che possa rispondere di un amico”, ecco, dopo poche ore, tornato in sede, ho appreso quell’attacco riguardante le prove nei cassetti. Se vogliamo dirlo questo mandato di cattura non è piaciuto, perché dimostrava e dimostra che cosa? Che nonostante la presenza di un sindaco come Orlando la situazione degli appalti continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare, sottobanco, in queste vicende...”. Si faccia caso alle date. L’udienza durante la quale Falcone è chiamato a discolparsi dell’accusa d’insabbiamento delle posizioni dei cosiddetti mandanti politici delle stragi di mafia è dell’autunno 1991. Il giudice troverà la morte soltanto 7 mesi più tardi.

Ora, Falcone, che riteneva “profondamente immorale che si possano avviare imputazioni e contestare delle cose nell’assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare ‘intanto contesto il reato, poi si vede’ perché da queste contestazioni poi derivano, soprattutto in determinate cose, conseguenze incalcolabili” (Verbale n. 61 Csm, pag. 61) è morto e sepolto. Leoluca Orlando, l’ideologo “del sospetto è l’anticamera della verità”, è sempre sindaco di Palermo. Con ciò non traiamo alcuna sommaria quanto malevola correlazione, ma rileviamo la circostanza: sindaco oggi e sindaco ieri. Con l’aggiunta che, adesso, il signor Leoluca Orlando Cascio, ritiene di essere legittimato a concedere o negare patenti di adeguatezza morale ai politici, in memoria di Giovanni Falcone. Cioè di colui che dichiarò ai suoi giudici: “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo”.

Aggiornato il 24 maggio 2019 alle ore 11:51